In Italia la crescita è ferma da vent’anni, come il governatore della Banca d’Italia ben sa, e non da quindici, come invece dice. È ferma dal crollo della lira, nel 1992, che Draghi alla direzione generale del Tesoro ha maldestramente propiziato con la sopravvalutazione della moneta italiana sul marco e nello Sme - una gigantesca palla alzata alla speculazione, per errore? E dalla successiva, a quel punto necessitata, accettazione della parità iugulatoria imposta dalla Germania di un euro a due marchi invece che a uno. Due eventi che hanno bloccato, col blocco ormai ventennale della spesa pubblica, in assenza di una riforma dello Stato e della fiscalità, e con la superinflazione, seppure mascherata statisticamente, il reddito reale e la capacità d’investimento e di spesa.
In parallelo con la globalizzazione che dilagava vent’anni fa, l’Italia registrò, fra il 1995 e il 1996, la perdita di 1.700.000 posti di lavoro. E tassi di crescita che negli stessi anni superavano lo zero solo dopo complicate ingegnerie contabili. Sono fra i pochi dati reali della crisi noti perché li rese noti l’allora governatore della Banca d’Italia Fazio – che per questo poi ha pagato? Ma bastano e avanzano. Il vincolo del debito, o della spesa pubblica, è da allora gigantesco e brutale, e non ha altra uscita che un consolidamento, nazionale o europeo. Che non è contrario all’interesse delle banche, di cui Draghi è il supervisore, ma non, come si vede, in questo momento: la speculazione contro il debito è sempre in agguato.
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