Giuseppe Leuzzi
Mafia
Prospera in situazioni di illegalità diffusa. Ma non è un governo nel governo, un nucleo o un potere autonomo e eversivo: è un’estensione brutale dello stesso governo. Tradizione, omertà, povertà concorrono. Ma in una situazione definita, di diritto e di forza (polizia), le mafie si estinguono. I casi di Marsiglia, Chicago, New York a varie epoche e con varie mafie, di Las Vegas negli anni 1960. La Piana di Gioia Tauro è passata rapidamente, cinquant’anni fa, in cinque-dieci anni, da ‘ndrangheta, una onorata società separata, minuscola (contrabbando di sigarette, spaccio di banconote false, rituali, pellegrinaggi, riunioni, muffu o fazzoletti da collo…) a mafia, radicate in tutta la società, agricoltura, commercio, finanza, politica, professioni, compresa la giudicatura, e nel regime comunitario dell’olio d’oliva, del bestiame e degli agrumi (i mafiosi ne sono padroni), gli appalti, la droga, l’usura, così benevola e così diffusa.
Sul piano pratico ne è riscontro l’impunità accordata, in situazioni di mafiosità acclarata e perfino professa, dalle autorità – carabinieri, Procure. Nei piccoli reati: porto d’armi, assicurazione auto, guida o parcheggio scorretti, multe stradali, parcheggi, occupazione di suolo pubblico. E anche nei grandi: vengono abbuonati anche atti di violenza alla persona. A fronte della brutale, perfino cinica, applicazione delle regole al resto della comunità per reati anche minimi, il caffè degli impiegati o la patente dimenticata a casa.
In paese c’è un assassino acclarato, che però non è stato condannato. È anzi diventato guardia forestale, e col suo gippone spesso occupa la strada, il tempo che gli piace per prendersi un caffè, conversare, comprarsi le sigarette (questo forse no, non fuma). Si dice in questi casi che sono confidenti. Non si vuole mai perdere la speranza.
Lo Stato è ordine e insieme disordine. Il disordine non sempre è un male: è cambiamento, e può essere benefico. Non al Sud, dove lo Stato è invece necrofilo, fomentando l’imbroglio: la mafia prospera in una situazione di piccola delinquenza economica diffusa: invalidità, contributi, assicurazioni, integrazione di prezzo Ue, appalti, protezioni.
La “mafia imprenditrice” (Arlacchi) è nozione falsa: la mafia non intraprende, ma ricicla. E non è nemmeno espediente alla sociologia, per allargare cioè la ricerca. Essendo in realtà un’equazione rovesciata - l’imprenditore è un mafioso - che porta fascine al ribellismo. Non per caso Pino Arlacchi l’ha elaborata col Procuratore Cordova, magistrato di formazione conservatrice e propensione reazionaria, nel quadro delle mistiche anticapitaliste.
I mafiosi vanno in Mercedes corpulente o Bmw. Perché alcune di questa macchine tedesche nascono blindate – sarà per divertimento: non si possono dire i tedeschi mafiosi. Preceduti da Punto o Fiesta civetta. Non contro i carabinieri. Hanno case con cancellate o muri di protezione, e videocitofono. Non per ostentazione: le case sono spesso non intonacate e non finite.
L’odio-di-dé meridionale
È una categoria che si deriva dal Selbsthass ebraico, formulato a fine Ottocento a proposito di chi, soprattutto in ambito germanofono, per assimilarsi rinnegava le origini. Se ne trovano molti cenni nelle polemiche giornalistiche. Specie in raffronto al sionismo, il movimento delle radici del popolo ebraico dei primi del Novecento. Costeggia dunque l’antisemitismo. “Der Operirte Jud”, l’ebreo operato, una satira del 1893 di Oskar Panizza, lo scrittore di Bad Kissinger, di padre cattolicissimo, di una famiglia di pescatori del lago di Como, e di aristocratica madre ugonotta, ne sintetizza, seppure in chiave grottesca (critica) gli stereotipi: un giovane medico ebreo tenta di mutare fisionomia e carattere sottoponendosi a una serie di operazioni, compresa una trasfusione di sangue da parte di “vergini ariane”, per poi finire, al momento del matrimonio con la bella tedesca bionda, in una massa gelatinosa al suolo. L’ultimo caso clamoroso è stato cinquant’anni fa quello di Dan Burros, un giovane ebreo americano diventato parte attiva del Partito Nazista Americano e di uno dei gruppi più feroci del Ku Klux Klan, che si suicidò quando le sue origini furono rivelate dal “New York Times”. Ma la categoria è sistematizzata in ambito ebraico. Da Daniel Felleiter, “Jüdischer Selbsthaß. Eine Betrachtung der Ansätze von Theodor Lessing, Otto Weininger und Sigmund Freud”, 2010, considerazioni sul tema. Sulla base dell’ormai classico “L’odio di sé ebraico” di Theodor Lessing, 1930.
Selbsthass non è l’opportunismo, questo è facile da definire, oltre che da individuare. È credersi qualcosa che non si è, e non si può essere. Non che sia impossibile essere italiani, e anzi lo si è, per lingua, usi e leggi, ma ci sono italiani buoni e altri no – come gli ebrei tedeschi, che erano ben tedeschi, e molti titoli di merito s’erano acquisiti e avevano acquisito alla Germania, nella letteratura, le arti, la filosofia, la scienza, l’industria, la finanza, eccetera, ma non potevano esserlo.
L’odio di sé ebraico diviene così una delle radici dell’antisemitismo: “Il bisogno di sentirsi odiato per sapere che non si è commiserato”, nota Rilke di Thalmann-Wassermann. Donde la sottile sfida tra simili, seppure non consanguinei. Furono ebrei in Germania alcuni dei più furiosi antisemiti. Non fino ai forni crematori, ma non ne ebbero l’occasione. Molti intellettuali: da Pfefferkon a Weininger, Trebitsch, Grossmann, Rathenau, Max Scheler, che Th.Lessing dice “il vero Caino ebraico”. Era ebreo pure Torquemada, che però non era tedesco. Benedikt Friedländer, suicida per essere ebreo, l’ingente patrimonio lasciò al dottor Eugen Dühring, il mangiatore di ebrei, grato per aver da lui “appreso la verità”. Al giubileo del 1900 Walther Rathenau, che mobiliterà la Germania in guerra con l’appello “Noi tedeschi”, aveva pubblicato un altro appello famoso, “Ascolta Israele”, che esortava al battesimo collettivo e al germanesimo. Maximilian Harden si votò alla “causa dell’uomo tedesco”, come poi Walter Benjamin: “Se muove da intime convinzioni”, disse Harden, “la lotta contro il semitismo non dovrebbe essere considerata in sé e per sé più spregevole di quella contro il cattolicesimo, il capitalismo, gli junker e il socialismo”. “Mosè era un forte antisemita”, ha scritto Freud a Arnold Zweig, e “non nascondeva di esserlo. Forse era in realtà egiziano. E aveva comunque ragione”. Una lettura di Mosé, della Legge, che viene ascritta al Selbsthass - che Freud terapeuta depreca, ma di cui si è nutrito.
La nozione è semplice, e tuttavia è difficile parlarne, perché si assume come buona la condanna contro cui essa si elabora. Un equivoco di fondo è alla sua origine: Th. Lessing, che l’ha sistematizzata, “pensa di fatto, paradossalmente, a una figura di ebreo costruita su un calco non troppo lontano da quello utilizzato dagli ideologi völkisch per articolare i mitologemi pangermanici di impostazione razzista da consegnare al consumo non riflesso delle masse” - così deve concludere Maurizio Pirro, introducendo la traduzione di “L’odio di sé ebraico”(Besa Editrice, s.d.). Th. Lessing - “Io sono sionista. Sono tedesco. Sono comunista” – fu a scanso di equivoci un attivo pacifista e socialista, tanto da procurarsi diffidenze negli stessi ambienti progressisti della repubblica di Weimar, e morirà assassinato dai nazisti nel 1933, perseguitato fin nell’esilio a Praga, e infine a Marienbad, l’ultima sua stazione. Anche lui scoprì l’ebraismo e cominciò a “sentirsi ebreo” ai trent’anni, “sentendo levarsi tendenze antisemite”. Anche lui come molti meridionali, che hanno scoperto nella maturità, al lavoro, sui giornali, di essere meridionali. Con la stessa incapacità di sentirsi diversi, tale era il grado di assimilazione: una falsa identificazione – Th. Lessing elesse a suo amico di adolescenza Ludwig Klages, che sarà capofila dell’antisemitismo, e non rinnegherà mai questa amicizia.
La categoria nasce però solida, non è fumo polemico, né scandalismo. È un passo indietro per sgomberare l’orizzonte e la via. Nella sintesi di Pirro: “Theodor Lessing si basa sulla distinzione tra uno stato di unità dell’essere anteriore alla nascita della coscienza e uno stato posteriore di scissione e di privazione determinato dalla rottura dell’equilibrio naturale a opera di turbamenti non più precisamente ricostruibili. L’insorgere di un «malessere nell’ambito dell’elemento vitale in riposo» induce l’uomo a riflettere sulla propria posizione nel mondo”.
L’opera principale di Th. Lessing, dopo “Europa e Asia”, una sorta di antropologia dello spirito, è “Die Geschichte als Sinngebung des Sinnlosen”, la storia come attribuzione di senso all’insensato. Lo studioso sa pure che l’antisemitismo è una sorta di “vizio inglese”, una dilettazione in autoflagellazione, sulla carne di altri: il “rabbioso nemico dell’uomo” parte sempre dall’odio di sé. E questo è il vero problema dell’antimeridionalismo: che chi ci governa non ne ha le qualità. Non le qualità del buongoverno: l’ultima verità della questione meridionale è che essa nasce per non essere risolta.
Anche questo Th. Lessing sapeva. “Come mai tutti gli uomini amano se stessi e solo l’ebreo è così poco in grado di farlo?”, chiede. Perché è dentro una gabbia da cui non può uscire. Una prima via d’uscita è: “Può accadere che proprio l’uomo dagli ignobili natali diventi giudice del mondo”. La seconda “volge tutte le spine contro il proprio cuore: gli altri sono assolti e tu diventi il tuo giudice e il tuo boia”. La terza è nota: “La grande metamorfosi riesce, la tua mimicry ha successo, diventi «uno degli altri» e fai un effetto favolosamente autentico”. Finché servi. “Forse un po’ troppo tedesco per essere veramente tedesco”, aggiunge Th. Lessing. E anche questo è vero: ci sono immigrati troppo milanesi.
Di fronte alla classe politica che ci viene data – che Milano che ci governa ci dà, compresa la Procura della Repubblica della città - la conclusione è tanto più vera in questa seconda Repubblica. Perché la via d’uscita vera, cui tutto porta, è quella falsa: è la prima, le altre sono succedanee. Dühring e Trebisch, fortissimi antisemiti, quest’ultimo anche ebreo, morirono ciechi, nota Th. Lessing con soddisfazione. Ma la mala erba non muore - con Trebisch erano tanti gli ebrei che si camuffavano, o prendevano altre pelli, proprio, ma non si salvavano.
Analizzata la categoria, anch’essa riporta alla casella base: il problema del Sud è il Sud. Ci possono essere state, ci sono state, prevaricazioni, furbate, distruzioni di valore, ma ora non più. Da tempo ormai. La classe dirigente italiana è del resto stata per lunghi periodi, prima e dopo Giolitti e il fascismo, meridionale. Siamo sporchi e cattivi come i cattivi dickensiani, che di se stessi dicono: “Sono vendicativo, sono falso e meschino, sono insensibile, ma fin da piccolo sono stato tiranneggiato, ogni più elementare necessità della vita mi è stata negata, non ho istituzioni, libertà, doveri, sono cresciuto con ladri e violenti. E questo può essere più o meno vero, storicamente come nella vita di un uomo, ma non conduce a nulla. E se ripetuto non è una buona scusa, e anzi non è più vero.
Felleiter trova in Freud una ragione peculiare dell’odio-di-sé: “Freud analizza la tendenza all’autocritica tipica dell’humour ebraico”. Che può non essere vero in ambito ebraico – Freud su questo è contestato. Ma non è chi non veda questa autocritica insopprimibile tra i meridionali. Un settentrionale non andrà mai a caccia dei propri difetti, e non li scaverà per confidarli a un meridionale, il meridionale solo sa esprimersi ridendo di se stesso. Tanto più in presenza del settentrionale, per compiacerlo. Felleiter dice anche che Freud “tenta nel suo lavoro analitico di emanciparsi dal gergo ebraico”. Ma di questo non c’è bisogno: una buona liberazione anzi farebbe tesoro della capacità di vedere l’“altro” lato dell’esistenza e del mondo – basta non farsene una colpa.
La squalifica del Sud
Il calciatore Neuville ha madre calabrese nelle cronache tedesche delle scommesse sul calcio. Quando ha giocato la finale del Mondiale del 2002 non aveva madre.
Per Tommy, il bambino di Parma rapito e ucciso da due barbari, il “Corriere della sera” evocava un complice “siciliano nato a Parma”.
La guerra per Trento e Trieste non l’hanno combattuta i trentini e i giuliani, ma i calabresi, i siciliani e i sardi. E questo è male. Hanno distrutto la Mitteleuropa, regno armonioso di pulizie etniche, nei Sudeti, nel Banato, nei Siebenbürgen, in Istria, Dalmazia, Moldavia, Transinistria, in ogni dove, da Scutari a Lubecca. Hanno provocato biblioteche di lacrime, di nostalgia.
Ma già prima le cose non andavano bene: c’è una Radetzskystrasse in ogni città e paese della Mitteleuropa, che i trentini e i giuliani ancora rimpiangono, molti lombardi e qualche veneto.
leuzzi@antiit.eu
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