Giuseppe Leuzzi
La Fantasia in do maggiore di Schubert, n. 10, imita col piano il mandolino. Ma certamente non è nostalgia, a Vienna non manca il mandolino, come potrebbe essere? Le parole, le cose, e anche le note hanno un solo senso e devono essere monotone in questa guerra di aggressione Nord-Sud.
La grecità dionisiaca di Nietzsche (come poi la contesa nazi-fascista su grecità vs. romanità, o Heidegger vs. i “South Winds”) è un Mediterraneo ottenebrato. Un Walhalla al sole.
Discende dall’Apollo iperboreo. Che non è invenzione di Nietzsche. Ma contrasta con l’evidenza, dei testi e della storia.
Quanto i mediterranei sono vittime di questa immagine: mettersi la maschera dionisiaca (che cos’è?) per autoflagellarsi? Essere rimasti indietro, nella tecnica e nello sviluppo (del capitale e dei processi) è un fatto. Flagellarsi non è un atto dovuto.
Il vino “ariano”
“Uno studio sulla variazione genetica dei vitigni ha dimostrato che molte varietà apparterrebbero ad un’unica grande famiglia”, scrivono all’unisono il “New York Times” e il “Corriere della sera” a fine gennaio. Ma trascurano il Mediterraneo e il Vicino Oriente, dove Noè ha inventato il vino, naturalmente con la vite e l’uva. La “scoperta del Sud” si arricchisce dunque con l’obliterazione della Bibbia, alla quale pure la teoria del genoma aveva fino ad ora fatto grande posto, e questa è una novità: dove andremo a finire? La superiorità del Nord usava confermarsi con la Bibbia.
Entrambi i giornali s’illustrano con gli stessi dati genetici e identica cartina della “rete”, che escludono presenza mediterranee. Ci sono dei vitigni francesi, ma dell’Atlantico, qualcuno dell’Alto Rodano – il Pinot nero non si può escluderlo. E ci sono dei vitigni portoghesi, dunque anche loro atlantici. La mappa e le parentele, con i gradi di nobiltà, sono prevalentemente tedesche. Il vino è deboluccio in Germania, perché il sole vi è scarso, ma è evidentemente antico. A meno che anche il genoma del vino non sì inquadri nell’“arianesimo”, per cui la Germania si lega all’antica Persia, Armenia e Georgia comprese – dove Noè si sarebbe spostato per inventare il vino.
Non parla del Mediterraneo, né del Vicino Oriente, nemmeno lo studio all’origine degli articoli, del dottor Sean Myles, genetista della Cornell University, che ha tracciato il genoma delle 1009 viti possedute dall’Usda, il ministero Usa dell’Agricoltura, 950 vinifera e 59 silestris. Nelle tabelle che elencano i 1.009 vitigni dell’Usda tuttavia la proporzione è inversa: 88 vitigni sono greci, 60 francesi, 52 italiani (più 14 silvestris), 33 russi (Caucaso), e poi compaiono quelli tedeschi.
Aspromonte
La derivazione dal greco aspros, bianco, e il latino mons, montagna, non sembra congruente come etimologia. Ma una mescolanza greco-romana nel lessico e nelle forme grammaticali, specie all’interno della regione, nota Cesare Lombroso, “In Calabria”, la piccola pubblicazione in cui raccolse le sue impressione nei tre mesi che passò nella regione nel 1862, medico con le truppe antibanditismo. E porta a es. mala panta e mala pasca, tutti i mali, “bestemmia composta di una parola greca e una latina”. Così cotraro e caruso, (καρυσο, tosato), per ragazzo.
Più spesso parole greche si frammischiano a parole latine, non altrimenti entrare nelle lingue neolatine: ceramida, tegola, è kéramos, catoio, scantinato, è katoikeo, io abito. Mentre sono latini: mancupatu, per povero, meschino; trappitu, per molino,frantoio, e palmenta, idda, ista, esti.
Il toponimo greco-romano è comune in Calabria (Misafumera, etc.). Si è parlato a lungo greco e latino insieme, fino al Cinquecento inoltrato.
“Questi boschi, così temuti, in effetti non sono poi così temibili, e questi famosi briganti calabresi sono come i bastoni ruotanti di La Fontaine: da lontano sono qualcosa, da vicino non sono niente”. A un certo punto del suo viaggio a piedi, quattromila miglia nel 1830, per la Calabria e la Sicilia, il ventiseienne ginevrino Charles Didier colloca questa osservazione. Che è sbagliata, i briganti ci sono e c’erano, ma è vero che da vicino sono solo briganti. Il timore-che-non-è-vero-timore, però, il pregiudizio o voce pubblica, non è senza effetto: “Il terrore che ispira rende il calabrese cattivo, perché niente demoralizza di più popoli e individui del disprezzo e dell’odio pubblico”.
Liberato da rapiti e rapitori, l’Aspromonte torna la montagna che è sempre stata. Sorridente, accogliente, piena di voci: spiriti, folletti, anime morte. Di fresche sorgenti, di cui ogni abitante della montagna, anche remoto, anche emigrato, resta sempre esperto. E di boschi e prati ubertosi: il bosco sul mare. Ospitale, ai brezzi, ai minoici (micenei), ai greci, dell’Ellade e di Bisanzio, l’odierna Turchia, ai latini (romani), ai saraceni, agli ebrei, ai massisti, la rivolta di massa contro la leva di massa, ai garibaldini e ai briganti.
C’è una cospicua “materia d’Aspromonte”, un ciclo cavalleresco attorno alla Montagna, intesa come ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI, poi sfruttato dai normanni, e nel tardo Quattrocento-primo Cinquecento, dagli Estensi e da altre signorie quando si vollero trovare antenati illustri. Un ciclo pieno di versioni e diversioni, sull’originale di un troviero normanno, come i più noti Reali di Francia e la materia di Bretagna, o arturiana. Ma è ignoto in Calabria. Lo hanno studiato un giovane olandese per la sua tesi di dottorato nel 1937, Roelof van Waard, “Études sur l’origine et la formation de la chanson d’Aspremont”, Groninga, e il toscano Marco Boni sessant’anni fa, nella volgarizzazione di Andrea da Barberino. L’uno lo inquadra nell’itinerario del pellegrinaggio in Terra Santa, Boni nel ritorno al volgare dopo l’umanesimo dotto, nella scorrevole ottava toscana.
Carmelina Siclari, che da Reggio ne ha tentato la lettura e la contestualizzazione storica, non è potuta andare oltre un breve saggio per le edizioni Novecento, e un’edizione (autoedizione?) sconclusionata di una delle edizioni del Quattro-Cinquecento - quella, si presume, redatta per gli Estensi.
Mafia
“Mafia pronta a un nuovo affondo”, annuncia il Procuratore di Palermo Ingroia una domenica di fine gennaio sul “Sole 24 Ore”: il passaggio alla terza Repubblica sarà una fase ad alto rischio, e il latitante Matteo Messina Denaro potrebbe diventare il regista di una nuova stagione stragista. Ma non dice che strage si prepara, o chi glielo ha detto, né cosa sta facendo per impedire questa catastrofe. E c’è una Terza Repubblica?
Il Procuratore di Palermo non sembra nemmeno preoccupato, nella bellissima foto a colori che illustra la pagina. L’Italia, dice a Galullo, inviato del giornale milanese, è una Repubblica fondata sulle stragi. Dei padroni. Cioè del “Sole”, o di chi altro?
“Inutile ricordare che non esiste il delitto in sé”, ricorda Giovanni Papini, al meglio un secolo fa nella prosa lacerbiana “I cattivi”, per cognizione e giudizio della legge: “Lo stesso atto viene giudicato in modi opposti a seconda dello scopo, del momento, del motivo, e del numero. L’uccidere, ad esempio. Chi uccide per difendere sé e le sue robe è assolto”, e così via – chi uccide per la patria, chi uccide senza volere, e una lunga teoria di altri aventi diritto che lo scrittore trova nelle leggi.
Tutto quello che fa un mafioso, dalla minaccia all’avvertimento, al danneggiamento, alla violenza alla persona, più spesso a danno di un altro mafioso, è deplorevole, esecrabile. Ma raramente viene punito – tardi, marginalmente: una qualsiasi lite di condominio, in ambito urbano, sarebbe repressa con più prontezza. E da qualche tempo, attraverso la collaborazione, viene redento. “Non sarebbe male sapere una buona volta cosa i cattivi pensano dei buoni”, conclude Papini. I cattivi, i meridionali.
Le guerre di mafia sono la natura e il destino delle mafie. Guerre che si combattono non per vincere ma per il principio. Per il potere cioè, che è sempre esclusivo. Chi combatte per fare del bene sa limitarsi.
La forza della mafia è la paura della morte. Che si accompagna a nature miti e sensibili.
È la sola forza della mafia, non l’omertà, non l’intraprendenza. Il mafioso imprenditore, o giudice, è un ibrido equivoco: nasce dall’accettazione-padronanza, da parte di ceti altrimenti borghesi, di borghesia del danaro o della toga, della violenza dei bruti, ed è comunque una parentesi, fino al prossimo ascesso di brutalità. L’omertà è invece una sciocchezza.
Se la cultura meridionale si urbanizzasse, introiettando la violenza quotidiana, la morte compresa, scontandola, la mafia perderebbe la sua terribilità.
Mafiosi per essere troppo miti? È un ipotesi, non una scusa, da non trascurare in un’analisi dei fondamenti della mafia: si riscontra in tutte le aree mafiose, a Napoli, nel Salento, in Calabria, perfino in Sicilia, una singolare mitezza, al limite della sdolcinatura, nella popolazione comune con la quale si viene in contatto per i minuti eventi della vita quotidiana, quasi uno specchio rovesciato della singolare violenza, anzi crudeltà, dei mafiosi, gente dall’occhio spento tanto è feroce.
È una compresenza che comunque va indagata. Altrove, dove il crimine non è tanto forte né diffuso da sovvertire .l’equilibrio sociale, la vasta popolazione non criminale non è sentimentale e nemmeno riservata, non è passiva. Anzi costeggia il crimine, lo sfida o lo usa, fino ai limiti della legge. Si vede a Roma nel mercato politico, a Milano in quello finanziario.
I mafiosi si pentono tutti. Anche i capi, in segreto: temono il carcere.
La mafia è siciliana, irlandese, russa, ebrea, cinese. È letteratura, godibile ancorché del genere splatter. C’è in Italia, fra gli storici, chi fa risalire alla mafia siciliana, a Cosa Nostra come la definì il pentito Joe Valachi, la storia americana del dopoguerra – non male: alle origini della pax americana ci stava Joe Gambino…. Non è buona letteratura, ma è indice di fantasia, di potenza ricostruttiva-narrativa. Ma dal punto di vista criminologico, per la lotta al crimine, è il paradigma mafioso produttivo oppure dispersivo? Un diversivo? È lecito dubitare: i megaprocessi sono dispersivi. Troppe assoluzioni rispetto al tempo dell’indagine, alle forze impiegate, ai costi materiali e di tempo\personale.
Milano
“Risvegliare la città!”, titola Giangiacomo Schiavi un appassionato, teso, articolo per “Io Donna”, a commento delle fotografie di Marco Anelli, che mostrano una città straniante, straniata. Una città che voglia tornare a essere quella che era vent’anni fa, chiede Schiavi, una comunità. E un riferimento per il Paese.
Ma da vent’anni Milano è il riferimento del Paese. L’unico anzi che ha l’Italia di essere. E ben compatto in questo, intollerante di ogni quisquilia di dissenso. Milano artiglia l’Italia anche con la divisione, Berlusconi e Bossi da un lato, il “Corriere della sera” e la Procura dall’altra. “Milano era allora una città riformista, tollerante, capace di accogliere tutti quelli che avevano qualcosa da dare”, ricorda Schiavi accorato. In questo però non è mutata: continua a prendere. E sul Paese ributta i rifiuti.
Non si può fare un “Contro Milano”, la città non gradisce. Si può fare un “Contro Roma”, o “Contro Torino”, sono stati fatti, e in qualche modo accettati. Ma “Contro Milano” no, la città è suscettibile.
Malaparte, che ha voluto farlo, ancora oggi trova difficoltà a farsi pubblicare da Milano, benché sia uno che venda – giusto, ultimamente, qualche titolo, da Adelphi, che a Milano si vuole “eretica”.
“Da Milano si vede l’Italia”, pare abbia detto Salvemini. Si vede male, ma si fa. Con durezza.
Nessun dubbio che il giudice per le indagini preliminari Cristina Di Censo non avallerà il processo immediato per Berlusconi. In altra città il dubbio sarebbe d’obbligo, a Milano no.
I tempi sono stati scelti anche per far attendere Berlusconi al giudizio immediato da due suoi nemici dichiarati, i giudici Oscar Magi e Nicoletta Gandus, in alternativa.
Senza vergogna si è preso il calcio. Con gli interisti Rossi e Borrelli in Federazione, alla giustizia sportiva, i milanisti Albertini e Donadoni sempre in Federazione, al settore tecnico, alla valutazione degli atleti, e quindi al calciomercato, Galliani alla Lega Calcio, e quindi ai contratti, Collina, l’uomo delle cene settimanali al Milan e consulente Opel, lo sponsor del Milan, agli arbitraggi, e la “Gazzetta dello Sport” per prendere in giro l’Italia.
Dopo che gli ascari napoletani avevano fatto il lavoro sporco.
Guardando Milano da lontano, da fuori, essa appare come un’ampia piovra che avviluppa dei suoi tentacoli, ancorché immateriali, la penisola. O meglio una gigantesca efflorescenza, per esempio un’orchidea velenosa che gentilmente e fermamente tiene costretta l’Italia dentro le sue volute, infiltrandone del suo velenoso tropicalismo ogni fibra, un’efflorescenza cancerogena aggressiva. Oppure come una metropoli. L’unica in Italia e per ciò stesso dominante. Un agglomerato, direbbe Simmel, che muta le sensibilità, anzi le appiattisce, col bombardamento continuo di stimoli veloci ed effimeri. I rapporti non vi sono umani ma di affari (concorrenza, opportunità: una divisione del lavoro per un migliore impiego del tempo), la socievolezza mirata a un fine, la giustizia un ring tra i tanti, senza colpi proibiti.
Conoscendo Milano se ne ha la riprova. Ma se è evoluta nel senso della metropoli, straniante, minacciosa, trionfante, la metamorfosi è recente, con la specializzazione nella moda e il marketing e la leadership del made in Italy, una gigantesca Madison Avenue. Parallelamente allo svuotamento dell’Italia manifatturiera e tecnologica, il cui riferimento è stato per un secolo abbondante Torino, e dell’Italia politica, cioè di “Roma”. Si può dire Milano la capitale “morale” dell’Italia vuota, sebbene piena di soldi. Una metropoli anonima, come le S.A., le società anonime che il business privilegia, e opera per riflesso condizionato. Un ambiente più che una società, senza contatto umano se non finalizzato al suo stesso automatico . Il reticolo di Simmel, o pelle sensibile, che reagisce automaticamente (subliminalmente) a stimoli anche rapidi ed effimeri,
Nessuno meglio di un immigrato da Napoli o Agrigento conosce Milano, dalla A alla Z e negli interstizi. Nessuno meglio dei lettori del “Corriere” della Puglia, la Calabria, la Lucania.
Nessuno vede le tv di Berlusconi con più devozione dei napoletani e dei siciliani. È sul mercato meridionale che prospera l’industria formaggiera lodigiana.
Il problema è la sudditanza.
leuzzi@antiit.eu
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