Carlyle rifà qui Sterne, come si sa, la passeggiata nel suo tempo in forma di narrativa - la “self-conscious fiction” di Robert Alter, il biblista (“Motives for fiction”, 1984, Harvard Univ.Press). Ma meglio rifà Jean Paul, di cui era traduttore, nonché approfondito critico con due saggi, il primo per la “Edinburgh Review” già nel 1826. Il “Sartor” ha protagonisti comici: un professor Teufelsdröckh, che sarebbe “feci del diavolo”, di nome Diogenes, e cioè “di origine divina”, uno che ride una volta sola, a una delle “Extra-aringhe” di Jean Paul, della città di Weissnichtwo, “non si sa dove”, sotto la protezione del Consigliere Aulico Heuschrecke, “cavalletta”… Con citazioni profuse da una cinquantina di autori (ne sono stati contati 45).
L’uomo rivestito è il dandy. La nuova categoria degli anni post-napoleonici. Che Carlyle non riesce a ridurre agli altri figurini del tempo, Buck, Blood, Macaroni, Incroyable – perché è egli stesso il primo dei dandies (capiterà ancora a Baudelaire, su questo speciale capitolo del dandysmo, di essere personaggio in commedia). Carlyle si produsse nella Critica del Vestire, i tre tomi di “Sartor Resartus”, per meglio azzannare la filosofia e la prassi del dandysmo. Il capitolo conclusivo “Il corpo dandiacale”, peraltro tutto jeanpauliano, e prolisso come tutt’e tre i libri, ne fa una setta. Che non manca di “libri sacri” (“che essi chiamano Romanzi alla moda; il Canone tuttavia non è definito, e alcuni sono canonici, altri no”), ma sono anche libri di successo, e questo forse spiega la dubbia ironia.
Germanista, Carlye ignora i francesi, integralmente. Chateaubrand gli avrebbe insegnato molto, che riconobbe negli indiani delle pianure americane i precursori del dandy, l’immaginazione attiva “nel grande deserto di uomini” – lui uomo così salottiero e innamorabile. Anche se non altrettanto bello che Carlyle.
Thomas Carlyle, Sartor Resartus, Liberilibri, pp.392, € 19
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