martedì 22 marzo 2011

Letture - 56

letterautore

Barocco – I suoi temi sono quelli di oggi: la morte, la paura, il tempo, e l’irrefrenabile passione manierista. L’epoca ci ha aggiunge il sesso, peraltro con tanta morte) e poco di più Anche il pietismo è di riporto.

Dante – “Una «Commedia» senza (tanti) commenti”. Pasticciando un titolo di Cesare Segre (“Perché sostenere gli studi su Dante”, nel “Corriere della sera” del 21 marzo) si ha un’idea di cosa Dante è stato quando la “Divina Commedia” per prima fu letta: una lettura esilarante. Quale ultimamente ha rinnovato Benigni naturalmente. E prima ancora Jacqueline Risset, nella nuova traduzione francese pubblicata da Flammarion venticinque anni fa: di grande lettura per essere puntata sul ritmo e, appunto, per non essere ingombrata dai commenti (le note sono confinate in fondo al testo, e servono a delucidare fatti e personaggi oggi poco noti).

Facebook – Prospera sul senso tribale e la nostalgia della genealogia. Su ciò che è perduto: il senso identitario, e la storia, sia pure del tipo “com’eravamo”, la memoria personale.
Sembra inventata da McLuhan.

Sogno – Nel sogno, diceva Baudelaire trascrivendo un suo sogno, “vale l’assurdo e l’inverosimile”. Ma molti sogni non valgono niente.

Sud - Contro il mito dello scrittore Solitario, Sofferente, Ribelle – l’Eroe (“particolarmente sbagliato nei confronti degli scrittori di narrativa, perché gli scrittori di narrativa sono impegnati nella più umile, nella più concreta e nella meno romanticizzabile delle forme d’arte”), Flannery O’Connor, scrittrice americana del Sud e cattolica, che si riterrebbe per questo doppiamente emarginata, porta il caso dello scrittore del Sud. Perché è parte di “una comunità”, grazie alla quale ha “un accesso alla realtà”. A meno che l’emigrazione non sia stata totale – “Faulkner era di casa a Oxford”, dice O’Connor, la Oxford puzzolente del Mississippi, o Carson McCullers e la stessa Flannery O’Connor in Georgia: “Quando effettivamente parte e rimane lontano”, lo scrittore del Sud “lo fa mettendo a rischio quell’equilibrio tra principio e fatti, giudizio e osservazione, che è fondamentale mantenere se si vuole che la narrativa sia vera”.
In America certo è diverso: “Da sempre i migliori romanzi americani sono stati quelli regionali”, nota la scrittrice (ma questo è vero di tutte le letterature che non sono state risucchiate da un centro metropolitano asfissiante, come in Europa sono state Londra e Parigi): “Il predominio è passato grosso modo dal New England al Midwest fino al Sud”. Il Sud ha “un certo vantaggio”, dice poi sardonica ma non del tutto, “perché abbiamo perso la guerra”. Che è la battuta di un vincitore del National book Award, Walker Percy, alla cerimonia di premiazione, ma ha un senso: “Abbiamo avuto la nostra Caduta. Entriamo nella contemporaneità con marchiata dentro la coscienza dei limiti umani e un senso del mistero che non si sarebbe potuto sviluppare nello stato d’innocenza originario – come non si è sufficientemente sviluppato nel resto del paese”.
In Italia il Sud è vittima dei romanzi sociali, che sono uniformi e gelidi, a differenza di Faulkner, McCullers e O’Connor, perché semplificano le passioni – la riducono a una sola, il risentimento (non nobile: è l’invidia sociale, da vittime volontarie e anzi militanti del possesso che si odia). Anche il Sud mescola la collera alla risata, e canta, balla, tuba trepidante, fa l’amore furioso (le “fughe”, le sconvolgenti passioni bovarine), guarda il mare, cammina in montagna. Quanto cammina, troppo… Gli pace la fannullaggine.
Gli italo-americani portano in letteratura e al cinema il Sud molto più realisticamente, cioè con verità. Perché allargano il campo dalla violenza all’amicizia, tra maschi, tra donne, tra fratelli, ai segreti inconfessabili, alle forsennate passioni dei padri per i figli, a una persistente fisicità (cibo, fatica, nascite, morti, contiguità, di mente e di corpo), ai suoni, a dialetti precisi e non folkloristici. Un mondo certo diverso dalle città invisibili, dai numero primi, e dalla vita che suona col postino, carnale, volgare forse, ma non disprezzato – negli Usa.

Tabù – Hanif Kureishi, “Kama Sutra senza peccato”, su “Internazionale” del 18 febbraio svolge lungamente il non nuovo argomento che, come non c’è sport senza regole, così non c’è “divertimento serio” – anche l’ossimoro ha lunga vita – senza tabù: “Se spariscono l’autorità e i tabù, non aumenta il divertimento, aumenta il nulla”. Che peccato che non sia un peccato, come diceva la contessa – ci mancherà Hitler?.

Vittorianesimo – L’epitome è Herbert Spencer naturalmente, che si dimentica troppo. Ma ne sono parte John Russell (tutti i Russell, fino a Bertrand) e J.S.Mill, Darwin e Livingstone, Tennyson e i Browning, Thackeray, purtroppo, e George Eliot, e perfino Oscar Wilde e E.M.Forster. Coevi – l’età non è senza influenza – sono Wilkie Collins e tutta la detective novel, Stevenson e Swinburne. E Sherlock Holmes, seppure a modo suo – il conformismo del non conformismo. Sono vittoriani Mazzini, Garibaldi e Gladstone (romanticismo della libertà), Engels (per confermato status, coniugale, reddituale), Marx, i Webbs. Marx perché lo era nella vita ogni giorno, e per l’ottimismo, il razionalismo politico, e lo statalismo – non prussiano ma anglo-indiano: fosse rimasto in Germania sarebbe finito nell’anarchismo?
È tempo di dottrine, teorie, filosofie, movimenti, letterari e non – che Thomas Carlyle, il primo vittoriano, ridicolizza d’emblée- nel 1833 (“Sartor Resartus”). Lo spirito dell’Ottocento, romantico, esotico, scapigliato, progressista, robustamente erotico, è vittoriano. Non è a Parigi, una successione di drammi politici, né nella Germania cupa e trafficona di Wagner, Bismarck e Guglielmo. Meglio vede l’epoca Bertrand Russell, che si vanta di essere nato “vittoriano” (“Ritratti a memoria”, p. 225): “Solo coloro che ricordano il mondo prima del 1914 possono rendersi conto in modo adeguato di quanto già si sia perso. In quell’epoca felice si poteva viaggiare senza passaporto, dappertutto tranne in Russia. Si poteva esprimere liberamente qualsiasi opinione politica tranne in Russia. La censura della stampa era sconosciuta, tranne in Russia. Qualunque uomo bianco poteva emigrare liberamente in qualunque parte del mondo”.
Era l’epoca del felice impero britannico - impero dei mari, quindi, direbbe Jünger, fantasioso, vaporoso. E bianco, certo – ma oggi niente è più concesso, nemmeno ai bianchi.

letterautore@antiit.eu

Nessun commento:

Posta un commento