Non è cambiata con la presidenza democratica, con un presidente per giunta nero. Non è cambiata rispetto alle presidenze del repubblicano integralista G.W.Bush. È stata del resto “fondata” dal precedente presidente democratico, Clinton marito, che ha sistematizzato i canoni reaganiani, abbozzati a Grenada, in Iran, in Libia, e perfezionati da G.Bush nella Guerra del Golfo – la guerra che “non c’è mai stata” del filosofo Baudrillard. È la politica estera americana, che è radicalmente mutata negli anni 1980, con la caduta dell’impero sovietico.
Negli ultimi trent’anni, da quando è finita la guerra fredda, gli Stati Uniti vengono accettati e sostenuti acriticamente per gli ideali che proclamano – ideali di libertà. Che sono invece formulari vuoti, in contrasto costante con i fatti. Tutto l’inverso di prima, quando invece degli Usa si contestavano, da sinistra e da destra, anche i fatti buoni, la difesa di Berlino o il ritiro dal Vietnam. Era eccessivo allora, è sbagliato ora.
In questi trent’anni gli Stati uniti hanno propagandato la guerra umanitaria, la guerra di liberazione, la guerra per i diritti, o la democrazia. Ma i fatti, univoci, dicono l’opposto: gli Stati Uniti hanno innescato e favorito situazioni d’instabilità cronica, con prevalenza di guerre civili, e fino alla ferinità. Nell’ex Jugoslavia, nel Corno d’Africa, e nel Medio Oriente, dal Libano e l’Iraq fino all’Afghanistan e al Pakistan, e ora ovunque nel Golfo e nel Nord Africa. Nell’area cioè che gravita sull’Europa. Le vecchie aree d’instabilità nelle quali gli Stati Uniti erano soliti esercitare la loro potenza, il Sud-Est asiatico (Vietnam, Cambogia, Malesia, Indonesia) e l’America Latina, sono dimenticate.
A parte l’ex Jugoslavia, che si sarebbe comunque governata bene senza le guerre civili, l’esportazione americana della libertà, della legge, dell’ordine democratico è zero. Nella pratica, questo esercizio militare dell’egemonia si specializza nella creazione di tante “Somalie”, posti invivibili di barbarie, con regressioni brusche e feroci nell’anomia, da cui l’aspirazione massima è fuggire. Tutti i paesi dove gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente avevano mantenuto peraltro intatto in questo tornante di millennio il tribalismo nella sua versione dissolutrice, Jugoslavia, Libano, Somalia, Iraq, Afghanistan.
Costante nei trent’anni, dall’intervento inopinato nell’isoletta di Grenada nel 1983, è il “bombardamento” di questo o quell’obiettivo remoto nelle stesse aree: Tripoli, Nairobi, Khartum. Fino alle vere e proprie guerre aeree, contro l’Iraq nel 1991, poi contro la Serbia, e di nuovo contro l’Iraq nel 2003. Obama del resto, più che un presidente nero, di una minoranza a lungo sfruttata, sembra uno uscito dall’album di “Star Trek”, la serie tv con la quale è cresciuto. Non ha espressione, probabilmente non ha emozioni, e la sua “cosa giusta” è quella dell’Impero: remoto, insindacabile, che solo si fa vivo con le bombe.
Un riesame critico della politica estera americana dopo il crollo dell’Urss non è stato fatto, ma essa si precisa a ogni evento in modo inequivoco. L’anno spartiacque è il 1989, per il crollo dell’impero sovietico. E per la globalizzazione, la scelta d’introdurre la Cina e l’India nel mercato internazionale. I due fatti sono collegati, poiché l’Urss traballava già da alcuni anni, sotto i successori di Breznev, il bipolarismo era già imperfetto, malgrado la minaccia americana delle “guerre stellari”, la guerra fredda disinnescata. Né la Cina faceva più paura, indebolita l’Urss: l’America di G. Bush si permise di trascurare Tienanmen perfino sotto l’aspetto propagandistico, per aprire a Pechino il suo enorme mercato. La strategia militare, che è parte sostanziale della politica estera americana, era stata già precisata in senso unilaterale, abbandonando il multipolarismo di Kissinger, abbozzato pochi anni prima, alla prima apertura verso la Cina, ancora in fase di “contenimento” dell’Urss.
Un fatto già accertato dall’analisi storica però c’è, ed è l’emarginazione dell’Europa, la fine della “interdipendenza” di Altiero Spinelli (in buona misura autoemarginazione, ma in questo quadro ciò è ininfluente). Dell’ideologia transatlantica che ha retto i rapporti internazionali dopo la guerra. In favore della sudditanza dell’Europa - considerata alla stregua di un utile idiota, moralista, saccente, al più “willing partner”, volenterosa – e di un equilibrio ben bilanciato con l’Asia – la Cina, le “Tigri”, il Giappone neo nazionalista. Con l’islam ora terzo incomodo, cuneo sull’India e la Cina.
L’Italia in questa nuova strategia, e ogni altro paese europeo, vengono in considerazione come guardaspalle. Ma da socii, o foederati, si direbbe nella latinità, e non come alleati. Con l’obbligo cioè di mettere a disposizione soldi, mezzi e uomini per le guerre degli Usa. La pubblicazione delle carte diplomatiche americane non lascia dubbi sulla natura dei rapporti tra gli Stati Uniti e i governi di queste aree – la pubblicazione è essa stessa un segno del rapporto squilibrato, limitata com’è stata alle carte dall’Europa e dal Medio Oriente.
Quanto all’islam, c’è dietro l’11 settembre un paradosso: perché gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto il fondamentalismo islamico, ovunque, fino all’11 settembre: in successione cronologica in Pakistan (Zia Ul Haq), Iran (Khomeini contro lo Scià e “Iran Contra”), Afghanistan (Talebani), Algeria (Gis). In alcuni casi lo hanno anzi “creato”, sostenuto cioè finanziariamente e propagandato: il salafismo nel Golfo, il qaedismo in Afghanistan, il Gis algerino, le dodicimila madrasse e le ottomila moschee costruite dal generale Zia in Pakistan. Ora sostengono la sovversione nei paesi arabi, senza forze di riferimento politiche, per una “piazza” astratta, indecifrabile, senza cioè ordinamento o punto di riferimento politico a Tripoli e a Bahrein è perfino “inventata”). E la sovversione non è mai fine a se stessa.
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