Non si saprebbe apprezzare abbastanza l’Italia, che è stata la consolazione dell’Ottocento. Un concentrato di tutte le aspirazioni di libertà, passione disinteressata, dedizione fino al martirio, e giovinezza, speranza, rinnovamento, che hanno agitato il secolo. Dal 1848 al 1860, e anche oltre, concentrò l’attenzione commossa (appassionata), sorridente di tutta l’Europa e del mondo, per un destino nazionale e di liberazione che si compiva a iniziativa del popolo, dei giovani, delle donne, e col sacrificio della vita di tanti di loro. Garibaldi, e anche Mazzini, furono per generazioni gli idoli dei sinceri democratici. Garibaldi era, in Italia e più a Londra, a Parigi, in Svizzera, in Germania (e in Germania per il cancelliere di ferro Bismarck), “l’eroe rivoluzionario europeo”. Ancora a fine Ottocento, nell’“Interpretazione dei sogni”, Freud per dare un’immagine affettuosa del padre morente, l’unica che gli concede in tutti i suoi ricordi, dice che “assomigliava tanto a Garibaldi”. Anche Cavour fu a lungo popolare, seppure presso un altro pubblico, specializzato.
Engels, nel tardo “Ludwig Feuerbach e la fine della filosofia tedesca classica”, del 1886, descrivendo le diverse vie attraverso le quali le borghesie nazionali si erano affermate in Europa, attesterà che l’Italia era singolarmente portata ad esempio a Berlino: per un buon decennio, fino a Sadowa nel 1866, al crollo dell’impero austriaco, si incitava la corte a prendere esempio dalla Realpolitik del conte di Cavour e dell’Italia dopo il ’48 e nel 1959-60. Gian Enrico Rusconi dà più riscontri di questo fascino nel recente “Cavour e Bismarck”. Il vecchio rivoluzionario Ludwig August von Rochau, autore nel 1853 dei seminali “Grundsätze der Realpolitik”, che inventarono la categoria, è un ammiratore di Cavour e dell’“esempio della Sardegna”, della sua “grande originale operazione nazionale”. Dopo la scommessa riuscita della guerra di Crimea (1853-1856) Max Duncker, lo storico della Prussia, scriveva al coautore, e storico famoso della Guerra dei trent’anni, Johann Gustav Droysen: “Come andrebbero diversamente le cose in Germania se i nostri amici politici berlinesi potessero essere rimpiazzati da Cavour e d’Azeglio! Ma verranno anche i nostri tempi”. Lo stesso Bismarck fu affascinato dagli eventi del 1860, che visse da inviato prussiano alla corte di Pietroburgo. L’opinione pubblica era per l’Austria, ma il futuro cancelliere era apertamente ostile e per questo vicino all’Italia. A dicembre lo dichiarò anche pubblicamente: “Per la Prussia è bene che si formi uno Stato italiano». E dopo l’unificazione, in una lettera al suo ministro degli Esteri, Albrecht von Bernstorff, ribadiva: “Avremmo dovuto inventare noi il regno d’Italia, se non fosse già nato per conto suo”. Il grande giurista liberale e antibismarckiano Rudolf von Jhering, quando nel 1866 la Prussia sconfisse l’Austria, scriverà: “Come ho invidiato per anni gli italiani per il fatto che a loro fosse riuscito quello che a noi il destino sembrava aver rimandato a un lontano futuro; come ho desiderato un Cavour tedesco e un Garibaldi come messia politico della Germania; poi di colpo esso è comparso tra noi nella persona del sempre insolentito Bismarck”.
Non c’è stato nel secolo dell’Europa altro evento che abbia suscitato tanto vasta e commossa partecipazione: l’Italia sembrò la consacrazione di tutto ciò che di bello il secolo aveva divisato, il coronamento di un impegno per questo non più inutile di fede e vita. Ma anche prima, nel Settecento, e anche dopo, nel Novecento, non si trova un evento che sia così compartecipato, dal fondo del cuore di ognuno. Un destino tanto più eccezionale in quanto l’Ottocento, nel mentre che si commuoveva per l’Italia e la celebrava, instaurava l’epoca imperialista delle egemonie “esclusive”, che è ancora il segno distintivo della storia universale. La Germania si fece una gloria di arrivare all’unità con le armi – giungendo per questo a giudicare male, eccezionalmente, l’unità di animo e di cuore degli italiani – ma fu salutata dal timore, anche se ammirato.
L’unità fu anche il compimento di una tradizione di lingua e di cultura, la più antica e la più robusta di tutta l’Europa. Che l’Italia compartecipava con l’Europa stessa e il mondo. Oggi si trascura ma non si può dimenticare il patrimonio politico (le repubbliche, i principati), artistico, letterario, filosofico, scientifico, di fede, che l’Italia aveva accumulato, e di cui aveva dotato il resto del mondo. Una lingua e una cultura comuni, per il più gran numero, che connota ogni civiltà che voglia schiudersi - c’è bisogno di un medium per comunicare all’interno di una civiltà, e all’esterno, con le altre civiltà. La lingua comune, nazionale, non è un artificio politico, è uno strumento necessario, se la storia s’intende di liberazione costante e di sviluppo – il dialetto preserva l’immediatezza delle emozioni, la lingua è necessaria per renderle attive e prosperare.
Nel momento, però, in cui questa magia si realizzava, così a lungo cullata, coltivata, sognata eppure reale, essa veniva tradita. Il Sud fu attivo, anche molto attivo, anche prima degli altri, nel 1820 e nel 1848 per la libertà e, in varia misura, anche per l’unità. Senza mai un tradimento o una defezione (come avvenne invece al Centro-Nord), noterà sorpreso lo stesso Garibaldi nelle “Memorie”. Se non quella, eccezionale, dei liberali napoletani del 1820, Carlo Filangieri, Pietro Calà Ulloa, Giustino fortunato nonno, che diressero la reazione borbonica del 1848. La critica del Sud aveva fino al 1860 riguardato il regime politico, il deprecato regime dei Borboni. Subito dopo l’unità invece, anzi già nel suo mezzo, nel 1860, diventò una squalifica virulenta e generale del meridionale, al modo che nel Cinquecento si era avuta la squalifica del negro, per popolare di schiavi l’America. Non di meno. La corrispondenza di Cavour con i suoi inviati nell’ex regno di Napoli è da allucinazione. In un quadro generale che cinquant’anni prima del “Gattopardo”, già nei “Viceré” (1894) è degradato nell’avidità e la corruzione - e tra “I vecchi e i giovani” (1913): Pirandello che si accosta alla politica non sa disegnarne altro.
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