Sergio Marchionne moltiplica i segnali esteriori di una presenza rinnovata a Torino, al Lingotto, nella stessa Mirafiori, del nuovo gruppo Fiat-Chrysler. Ma i dati della joint-venture sono sempre quelli calcolati e resi pubblici da Steven Rattner in “Overhaul”, e indicano che il gruppo ha la testa in realtà negli Usa, e a Washington più che a Detroit. Il vero azionista di Marchionne è Obama. Rattner aveva diretto nel 2008 la task force creata al tesoro Usa per il salvataggio dell’industria dell’auto.
Fiat è sempre in minoranza nel capitale Chrysler, al 25 per cento. E ha pendente una richiesta di crediti agevolati al dipartimento dell’Energia dell’amministrazione federale per 3 miliardi di dollari. In una situazione ancora fluida, in cui il salvataggio di Chrysler non è scontato nella stessa amministrazione – quello di General Motors sì, ed è quasi ultimato, quello di Chrysler no, ed è ancora pendente. Anche il potere decisionale nella joint-venture è americano, e in questo caso fa capo a New York più che a Detroit. Sergio Marchionne ha poteri esecutivi ma non decisionali. Che spettano al consiglio d’amministrazione. Presieduto da Robert Kidder, in qualità di rappresentante della banca Morgan Stanley, la maggiore creditrice di Chrysler prima della bancarotta.
Al momento del salvataggio la partecipazione Fiat fu calcolata, stanti le difficoltà finanziarie del gruppo italiano, in apporto di tecnologia, per un controvalore di 1,9 miliardi di dollari. Mentre i Veba, i fondi sanitari dei pensionati, convertirono la metà dei loro crediti verso Chrysler (in totale 8,8 miliardi di dollari) nel 55 per cento del capitale. La restante quota è in capo al Tesoro.
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