I cani sono due, due lupi, e animano il topos dell’assassinio nello scompartimento. Nonché lo scialbo Jelling, l’investigatore senza corpo di una città senz’anima, Scerbanenco la nominò Boston, di quando i gialli per essere rispettabili dovevano essere nordamericani. Un racconto avvincente, da vero “autore di massa”, semplice, diretto, seppure per un mercato d’élite: Scerbanenco pubblicò con questo sette romanzi nel 1942, firmandosi con sette nomi diversi. Un altro regalo è la nota di Roberto Pirani, degno culmine alla lettura, concisa e ricostituente, sull’autobiografismo del racconto (Scerbanenco lamentava col suo ex direttore Zavattini le stesse perfidie d’ambiente, le redazioni dei giornali), e con un’ottima bibliografia dei “casi in treno”.
Giorgio Scerbanenco, Il cane che parla, Sellerio, pp. 218, € 13
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