domenica 10 aprile 2011

La guerra moderna è partigiana

Se Kennedy avesse letto questa “Teoria” quando uscì, nel 1962, non avrebbe fatto la guerra in Vietnam. Schmitt già sapeva che “le operazioni belliche dopo il 1945 assunsero il carattere di guerriglia partigiana perché i detentori di bombe atomiche rifuggivano, per ragioni umanitarie, di farne uso, e coloro che non le detenevano poterono contare su questo scrupolo – una conseguenza inattesa sia della bomba atomica sia delle ragioni umanitarie”. L’inermità connessa alla potenza. Dopo cinquant’anni, la “Teoria” è più che mai valida, si vede su ogni fronte, anche se ora tutti per convenienza si chiamano umanitari. La guerra di difesa partigiana esiste del resto da due secoli, secondo Schmitt, dalla resistenza a Napoleone in Spagna, nel Tirolo e in Russia, 1808, 1809, 1812 (e in Calabria, 1807-9). E da almeno un secolo, dal Regolamento per la guerra terrestre dell’Aja del 18 ottobre 1907, è regolamentata, cioè prevista e protetta – ancora meglio dalle Convenzioni di Ginevra del 1949. Per non dire della Svizzera: tra le chicche trovate da Schmitt una è della confederazione, s’intitola “La Resistenza totale. Istruzioni alla piccola guerra alla portata di tutti” (“Kleinkriegsanleitung für jedermnann”), nel 1958 è alla seconda edizione, opera di un semplice cap. H. von Dach, a cura dell’Associazione dei sottufficiali svizzeri - ma la guerra partigiana non è da sempre la strategia e la tattica della difesa elvetica, con e senza Guglielmo Tell? Per non dire, andando più in là, dei gueux nelle Fiandre, dei Vespri Siciliani, eccetera. Solo la coalizione dei Volenterosi in Iraq e quella Onu in Afghanistan sembrano ignorarla, insomma lo Stato Maggiore Usa. Fermo restando, Schmitt si attesta qui sul “Che”, che “la guerra di guerriglia è una fase della guerra, che non ha di per sé la possibilità di conseguire la vittoria”.
È un libro di diritto ma si legge come un libro di storia, che sempre riserva sorprese. Di cui Schmitt è anche qui dispensatore, benché giurista meticoloso. Le stesse guerre napoleoniche trova interpretate come guerre di guerriglia dallo Stato Maggiore prussiano nel 1806. Che si adegua e dopo pochi anni la ordina per editto. Fino ad allora la guerriglia, o guerra di partigiani, era la “guerra leggera”, di squadroni mobili, ussari, ulani, panduri, cacciatori, forma prediletta delle “guerre di gabinetto” delle quale il Settecento si compiaceva, dopo gli orrori delle guerre hobbesiane del Seicento. Ne fu fautore Clausewitz, per lo stesso principio che la guerra è politica. Di Clausewitz Schmitt scopre che ci arrivò in polemica anonima (“un anonimo militare”) nel 1809, a 29 anni, con Fichte, in quanto “autore di un saggio su Machiavelli”: il futuro polemologo obietta al filosofo che le tattiche di Machiavelli sono antichiste, mentre modernamente, “attraverso la sollecitazione di forze individuali, si ottiene infinitamente di più”, e specie “nella più nobile di tutte le guerre, quella che un popolo combatte sul proprio suolo per la libertà e l’indipendenza”. Ne fu fautore Bismarck, che nel 1866, dice Schmitt, era “acherontico”: voleva scatenare l’inferno, ossia il nazionalismo, ovunque contro il nemico asburgico, fino in Boemia e in Ungheria, e lo organizzò. E perfino Hitler, che il 16 maggio 1944 la guerra partigiana decretò contro l’Armata Rossa.
È la guerriglia partigiana che ha sconfitto Napoleone in Russia, ed è la vera materia, dice Schmitt, di “Guerra e pace”, più del pacifismo inorridito. L’ultima storia rimossa è quella di Raoul Salan, finito all’ergastolo nel 1962 per il terrorismo della sua Oas, l’organizzazione anti-De Gaulle e anti-Algeria, lui che era un generale, repubblicano di sinistra, comandante in Indocina, gollista decisivo nel 1958 per il ritorno del Generale: “L’analogia fra gli ufficiali dello Stato Maggiore prussiano del 1808-13, che erano rimasti impressionati dalla guerriglia spagnola, e quelli dello Stato Maggiore francese degli anni 1950-60, che avevano avuto esperienza della moderna guerra partigiana, è sbalorditiva”.
L’editto prussiano del 21 aprile 1813, “pubblicato secondo tutte le regole”, reca in calce la firma del Re. “Si resta attoniti nel leggere il nome di un legittimo regnante sotto un simile appello alla guerra partigiana”, ironizza il fine giurista: “Queste dieci pagine della raccolta delle leggi prussiane del 1813 (pp.79-89) sono certamente da annoverare tra le più inusitate di tutte le gazzette ufficiali del mondo… Scuri, forconi, falci e lupare vengono espressamente raccomandati nel paragrafo 43”. Insomma, “una specie di Magna Charta del partigiano”. C’è in questa “Teoria” naturalmente molto Lenin, in pensiero e di fatto – la sua traduzione dalla Svizzera in Russia a opera dello Stato maggiore tedesco per fare la rivoluzione. E una lettura anticipata del ruolo decisivo nel dopoguerra di Mao, della sua Marcia e delle sue riflessioni, rispetto al boom del Libretto Rosso e del maoismo.
C’è la Resistenza nella seconda guerra mondiale. In Italia e altrove. In Italia “cursoriamente”, lamenta Franco Volpi nella postfazione, ma c’è, in rapporto al ruolo dell’Italia, e della Resistenza in Italia, Schmitt non si nega nulla. Mentre di quella in Russia afferma che innescò la sconfitta tedesca: “I partigiani russi sono riusciti a impegnare, secondo stime di esperti, circa venti divisioni tedesche, portando così un contributo decisivo alla vittoria”. Ma più ancora del moto di popolo, rileva, contò qui l’organizzazione, politica e militare. Con un comando unico, del partito Comunista e di Stalin. Perché il partigiano deve essere sì irregolare e “tellurico”, legato alla terra, alla patria, ma anche politicizzato, e organizzato, inquadrato come vogliono il “Che”, Mao e Lenin, in una guerra vera. O legato a un “terzo interessato”. Altrimenti le cose non funzionano: “I partigiani polacchi che durante la seconda guerra mondiale combatterono contro i tedeschi furono crudelmente sacrificati da Stalin”, scrive Schmitt, le cose si sapevano prima che la strage di Katyn fosse resa pubblica.
Delle guerre napoleoniche Schmitt curiosamente sottovaluta il sentimento partigiano, cioè ribellistico, che esse suscitarono con la leva in massa. L’odiosissima tassa sulla vita, introdotta al coperto della rivoluzione e della libertà. Essa suscitò fra le tante la resistenza dei “massisti” in Calabria, che poi si ripeterà col primo brigantaggio subito dopo l’unità, che anch’essa si presentò con la coscrizione. È questa resistenza, e non la libertà, il tema di uno dei primi canti della tradizione popolare italiana, nel 1808: “Partirò partirò, partir bisogna\ dove comanderà nostro sovrano;\ chi prenderà la strada di Bologna\ e chi anderà a Parigi e chi a Milano.\ Ahi, che partenza amara…”. Schmitt cita la resistenza di von Kleist, che per tre anni fino alla morte combatté l’invasore francese, ma con l’aria che sia il giovane poeta lo strano della situazione e non gli ammirati esegeti della Provvidenza napoleonica, Hegel, Goethe. Il “terzo interessato” inoltre non è dirimente: Schmitt trascura di rilevare che il sostegno inglese, se servì alla vittoria della Spagna contro Napoleone (e nel secondo dopoguerra in Grecia contro Stalin), non fu di alcun aiuto alla Resistenza polacca, durante e dopo la guerra (e di scarso, non decisivo, aiuto ai “massisti” in Calabria nel 1807-9). Ma questo suo resta il testo più innovativo. Molti altri si sono esercitati nei cinquant’anni dopo l’uscita della “Teoria”, specie con la “guerra umanitaria”. Enzensberger nel 1984 a margine del suo amato nichilista Boris Savinkov (“Vor- und Nachbericht” a Boris Savinkov, “Erinnerungen eines Terroristen”), che pone il problema della “resistenza alla resistenza”, alla rivoluzione cioè abortita, Glucksmann, Negri e Hardt più recentemente con “Moltitudine”, la resistenza-presa di possesso della globalizzazione, Michael Walzer, dal 1973, dalla sconfitta americana in Vietnam il trattatista più esteso in materia (che non cita Schmitt…). Ma “don Capisco” ne sa di più.
Chissà che avrebbe detto della “guerra umanitaria”, nella quale si esprime il nuovo ius publicum mondiale, e che discende dal cielo, imprendibile. E “intelligente”, certo. Lui aveva già individuato il “cosmopartigiano”. La tecnica potrebbe togliere l’aria e la terra al partigiano, la cosa è possibile, ma che succederà, si chiedeva, “se il tipo umano che ha dato vita fin qui al partigiano riuscisse ad adattarsi all’ambiente tecnico-idustriale, a servirsi dei nuovi mezzi e a sviluppare un nuovo tipo di partigiano, che si è adeguato alla nuova realtà, il «partigiano industriale»”? In definitiva, il partigiano di una sola cosa ha veramente bisogno, di legittimazione: deve “restare nella sfera del politico e non sprofondare in quella del criminale”. O come diceva il “Che”, ricorda Schmitt divertito: “Il partigiano è il gesuita della guerra”.
Carl Schmitt, Teoria del partigiano, Adelphi, pp. 179, €13

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