mercoledì 20 aprile 2011

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (87)

Giuseppe Leuzzi

Milano
Paolo Isotta si gode all’Opera di Roma “Il ratto del serraglio”, malgrado la regia, che riprova. Di un regista Vick famigerato, dice, per i tanti flop alla Scala. Ma la materia dev’essere controversa, sul “Sole 24 Ore” Carla Moreni ne fa invece un elogio oltre ogni convenienza, insistito, polemico. E anche questa è Milano: invadere l’Italia Roma con i propri vezzi.
Isotta, che non è milanese, una soddisfazione però se la toglie. In forma di rimprovero agli spettatori che non hanno contestato il regista: “Ma il pubblico delle «prime» del teatro dell’Opera”, che gli viene detto consistere essenzialmente delle consorti dei proprietari di cliniche, “non è diverso da quello delle «prime» fuori abbonamento della Scala: accetta tutto”, ragiona. E si consola: “Almeno esse pagano il biglietto”.

Il vezzo di gravare gli altri dei propri torti e delle debolezze – i lombardi o trionfanti o vittime – è il marchio del romanzo con cui Milano governa l’Italia, quello di Manzoni. Si governa attraverso il linguaggio e il mondo morale, il nazionalpopolare famoso di Gramsci. Manzoni ributta il peggio, nel romanzo, sulla Spagna, anche a costo del ridicolo – del Seicento, che fu per la Spagna il secolo d’oro, fa un tempo vuoto, deridendolo. Mentre ci vuol poco per sapere che tutte le istituzioni e le leggi sotto gli spagnoli erano in realtà lombarde, lombardi i governanti (amministratori, giudici, sbirri), lombardi ovviamente i preti e i vescovi, molto influenti, e che il re di Spagna, che non prendeva nulla dalla Lombardia, vi profondeva rendite e capitali, a fini di rappresentanza, beneficenza, difesa militare.

Il verbalismo, o eccesso di espressività linguistica, con conio di parole nuove e costrutti deformanti, è padano, anzi lombardo: Paolo Giovio, Teofilo Folengo, la Scapigliatura, Dossi, Gadda, Testori. Perché il lombardo, così ordinato, ha bisogno per esprimersi di rompere la forme?

Anche Cicco Simonetta, il cancelliere di Francesco Sforza che salvò la signoria negli anni del suo volubile erede Galeazzo Maria e della reggenza della vedova Bona di Savoia, alla fine fu fatto processare dai signori milanesi. Da giudici notoriamente avversi: “Tutti inimici e di factione contrarii”, li dice Bernardino Corio, Storia di Milano, p. 1428. Ma Cicco era calabrese.
Anche nel caso di Cicco i maggiorenti milanesi ne vollero l’esecuzione per spartirsene le rendite, le attività, e le ville – una era proprio ad Arcore.

Provate a chiedere un’informazione a Milano, molti vi passeranno davanti senza nemmeno guardarvi, altri vi diranno “non so” prima ancora che abbiate finito la domanda. Non è casuale l’avventura, chiamiamola così, del maratoneta kenyano Kanyanjua domenica 27 marzo, che dopo aver partecipato alla Stramilano ha vagato ventiquattro ore per Milano perché nessuno gli diceva come arrivare a piazza Firenze. Nessuno dei tanti interlocutori che l’atleta ha avuto cura di selezionare, evitando le spaventate dal negro: vigili, poliziotti, autisti di tram, tassisti, lettighieri. Lo hanno trovato prima, dopo ventiquattro ore, attraverso Facebook. Qualcuno che lo aveva visto su Facebook, o che “ama l’Africa”, e sa l’inglese, si diletta a conversare con Kanyanjua la mattina di lunedì, e gli regala infine due euro (l’atleta aveva indosso solo la tuta). Con i quali Kanyanjua chiama il fratello in Kenya. Che avvisa la società di atletica austriaca on cui Kanyanjua si allena.
Il milanese non risponde. Magari ora Milano vanterà la generosità del tizio che “ama l’Africa”. Ma chiedere una strada o un indirizzo a Milano è impossibile. Sembrano tutti immigrati, estranei alla città.

La Lombardia è razzista, si sa. A Varese, Como, nella stessa Milano, e anzi tra gli interisti contro Balotelli, italiano nero. Ora di nuovo a Como, contro la cestista Abiola, che è di Parma, ma anch’essa nera. Ma Severgnini e il “Corriere della sera” dicono che non ci sono razzisti, solo “stupidi”.

Pentiti
Nella battaglia del giudice Ingroia contro Berlusconi si schiera anche Brusca. Non con Berlusconi, come ci si aspetterebbe da un essere abietto, ma col giudice. Dopo quindici anni di pentimento, Brusca si è ricordato che aveva conosciuto Berlusconi e aveva fatto affari con lui. Se ne è ricordato al telefono, informa “Repubblica”, la scorsa estate, sapendo di essere intercettato.
È un Brusca politologo, quello che la scorsa estate parla al telefono, e anche massmediologo: “La guerra non è fra Berlusconi e questi della sinistra”, spiega al suo compare, un altro pentito: “La guerra è tra Berlusconi e De Benedetti con Repubblica e tutto il resto”.
Questo riferisce da Palermo “la Repubblica” il 5 aprile. Che fa di Brusca “un fan di Berlusconi”, ma lo illustra con foto lusinghiere, dimagrendolo, ombreggiandolo, mentre è un rospo con gli occhi esorbitanti. E imbolsendo invece le guardie penitenziarie che lo circondano.
Brusca è anche un killer specialmente abietto, l’assassino di Falcone. Uccise tra i tanti il ragazzo Di Matteo, che sciolse personalmente nell’acido. Per punirne il padre, reo di collaborare con la giustizia. Di cui è diventato, come si vede, il confidente apprezzato. Benché abbia commesso vari altri reati nel corso del suo pentimento, e abbia sempre occultato i soldi del malaffare. Il problema del Sud è sempre più lo Stato, lo Stato della giustizia.

Un non pentito, il figlio Ciancimino, ha il trattamento del testimone eccellente, protetto, spesato. Riverito nelle corti, i giudici sono sempre molto buoni con lui, e nei giornali. Uno che palesemente è un testimone falso. Che imbroglia le carte e le fabbrica. E non solo non è processato per falsa testimonianza, ma non è nemmeno “ristretto”. L’arresto è obbligatorio per chi può inquinare le prove, per Ciancimino jr., che mostra di inquinarle, no. Per inquinare l’antimafia?

“Forza Inter” scritto a “Quelli che il calcio” pare che volesse dire: “Ammazza il tale”. Lo assicura un “pentito”. Che naturalmente è creduto. Ma la cosa non è inverosimile: Moratti e la sua squadra hanno qualcosa del killer.

Autobio – 2
Il ritorno

Della storia greca qualcosa comincia a riemergere. Che è stata così lunga e anche recente, se il Barrio, “De antiquitate et situ Calabriae”, nel tardo Cinquecento ci classificava di parlata ancora grecanica, in chiesa e fuori, ma la voglia di moderno aveva cancellato. Dell’altra storia non si sa nulla, ma s’indovina. Tutto fa parte d’altronde di un ritorno, uno studio non è consentito e forse nemmeno gradito, solo le sensazioni, e i ricordi: il paese è una realtà distinta, a cui si ritorna, per periodi più o meno brevi, ma da visitatori, forestieri seppure non estranei. Per i quali il raffronto è soverchiante, non vivendo il giorno per giorno, le realtà in trasformazione, le trasformazioni stesse nel loro farsi.
Non c’è altra realtà che il come siamo in rapporto al com’eravamo. Come per un emigrato in terra lontana, o un carcerato di lungo periodo, che ritorni dopo molti anni, così è per l’intellettuale anche se sempre è tornato e torna spesso: c’è una radicalità nella scelta del distacco, più che nella lunga lontananza dopo un distacco non voluto. L’emigrato per scelta inevitabilmente assume il punto il vista del comparatista – il ritorno si fa in rapporto a una realtà “altra” dove si sono messe radici – e del giudice. Con la possibilità dell’errore, e il sospetto sempre dell’ingenerosità. Benché inevitabile, e talvolta utile.
Il ritorno a casa è ambivalente, secondo la psicanalisi. Felice e angosciante lo dice Lou Andreas Salomé in “Aprile. Memorie su Rilke”. Lou Salomé ricorda a Rilke come egli, tedesco, si sia “trovato” nella sua Russia, di lei. Ma anche lei concorda, non artificiosamente: “Sul suolo nativo, con le sue rocce, i suoi alberi, i suoi animali, rimane qualcosa di sacrosanto all’interno dell’umanità di ognuno”. Questo essere nelle radici e altrove di Lou Salomé è tanto più rilevante in quanto Rilke aveva “una forte antipatia nei confronti delle proprie origini austriache”. Mentre Lou, russa, si ricorda al poeta più spesso come “noi tedeschi”. Un po’ come Aldo Maria Morace, storico della letteratura, presenta due racconti di Alvaro “novecentista” sotto il titolo “Viaggi attraverso le cose”, spiegando che non c’è vita senza “passato e memoria”. Morace trova tema alvariano, “estetizzante”, il “trapianto impossibile in un’altra società”. Il racconto bello della plaquette, “Avventure”, che dava il titolo alla raccolta originaria, non più ristampata, del 1930, “Misteri e avventure”, era stato da Alvaro ripreso dalla raccolta “L’amata alla finestra” dell’anno precedente, dove figurava nel racconto eponimo, col sottotitolo “Il ponte”. È da rivedere se questa realtà-irrealtà non sia il proprio di Alvaro. Anche e specialmente in “Gente in Aspromonte”, che è tutto meno che realista – né neo realista in anticipo, non essendo un testo politico.
Il ritorno-rifiuto delle origini è uno dei problemi biografici acclarati di Corrado Alvaro, lo scrittore che deve la sua fama all’Aspromonte e a San Luca, il suo paese, dove però non è mai tornato dopo i vent’anni, se non rade volte, di notte, per poche ore. Più spesso invece se ne è alimentato, di un ritorno fantastico e mitico all’infanzia e al passato, alla montagna, al mare, agli elementi – colori, odori, sapori, luci, miti, leggende, persone, modi d’essere e di dire. Senza però un ritorno reale, anzi nella mancanza ricercata di contatti: la sintonia è con l’infanzia immaginata, il passato supposto, una natura peraltro sconosciuta, e in definitiva estranea. Compresa la famiglia, con la quale il legame è fattuale – beneducato - e non affettivo. Al funerale del padre Alvaro arrivò a esequie già fatte, e ripartì subito – di un padre che l’ha voluto “Alvaro”, fortissimamente: colto, scrittore, emigrato. Alvaro esemplifica la commistione di radicamento e sradicamento. È grande scrittore per il radicamento in San Luca, Polsi, l’Aspromonte, lo Jonio, ovunque nei suoi scritti, perfino nella tragedia “Medea”. Ma questo mondo propone avulso, un reperto senza contesto, e dai significati servili: trascuratezza, asocialità, violenza. Mentre più vivacemente è sradicato, a suo agio a Berlino, Parigi, Mosca, Istanbul, lo scrittore più cosmopolita del Novecento italiano.
Il ritorno a casa può essere fonte di vita. La superintellettuale Lou Salomé così lo ricorderà di sé e del sensitivo Rilke in morte di quest’ultimo, con il quale s’era accompagnata amante, lei di cinquant’anni, lui della metà, in un lungo viaggio di ritorno in Russia, la sua patria, aprendolo all’amore: “Molti anni dopo… mi dicevi talvolta del tuo sforzo per raggiungere, in qualunque cosa o circostanza, la dimensione mitica, mistica, cercata in modo simile ad un tentativo di anestesia, per far scivolare i dolori e le angosce. E pensavi a quei comuni accadimenti come fossero stati dei miracoli mancati, che pure avrebbero potuto essersi prodotti. Così assolutamente certi e tangibili si produssero per noi, per niente mistici, più reali anzi di ogni realtà, tanto che, anche quando volevamo allontanarcene, dovevamo poi sempre farvi ritorno come ad una casa”. La casa dell’amore ma anche la natura comune. Che Rilke, continua Lou, siglò con queste “felici parole”, una volta che sul Volga avevano rischiato d’imbarcarsi su due battelli diversi: “Anche navigando su due navi separate, avremo una medesima via a ricondurci indietro – perché comune è la sorgente”.
Ritrovare una persona per ritrovare un passato, dei personaggi, degli scorci, degli avvenimenti. Perché la tradizione è grande parte di noi stessi. Ed è un’occasione per avere interlocutori esclusivi personaggi illustri.
C’è comunque un “riconoscimento” in ogni ritorno. Personale e circostanziale, delle cose, dell’ambiente, delle persone, che più spesso negli anni sono nuove o sconosciute. Compresa l’estraneità che il paese sente verso chi è emigrato. Anche contro le intenzioni, che magari sono amichevoli: non c’è interscambio fra chi è andato via e chi rimane, se non limitato: sporadico, occasionale, di circostanza.

leuzzi@antiit.eu

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