Le conseguenze dell'immigrazione sui lavoratori “indigeni” sono minime, e più positive che negative. Questo era stato già detto e provato. Ma dalla nuova immigrazione hanno più da temere i vecchi immigrati in mercati del lavoro rigidi: è quanto calcolano Gianmarco Ottaviano, ricercatore del dipartimento di Economia della Bocconi, e Giovanni Peri, dell’University od California a Davis, nello studio “Rethinking the Gains of Immigration on Wages, che verrà pubblicato a giugno dal “Journal of the European Economic Association”. Ottaviano e Peri modificano un precedente modello di equilibrio generale di George Borjas per tenere in considerazione due fatti: che immigrati e indigeni non sono sostituti perfetti nel mercato del lavoro neppure quando condividono le stesse caratteristiche di esperienza e di istruzione, e che il capitale fisico è soggetto ad aggiustamenti come reazione alla crescita di produttività che risulta dall’impiego di immigrati meno costosi. Gli immigrati entrano in concorrenza solo con una piccola parte - circa il 10 per cento negli Stati Uniti - dei lavoratori “indigeni” nel mercato del lavoro e non influenzano gli altri. Mentre le imprese, grazie all’utilizzo di lavoro meno costoso, diventano più competitive e possono aprire nuovi impianti, che danno lavoro sia agli immigrati sia agli indigeni.
In un precedente studio, “The Labor Market Impact of Immigration in Western Germany in the 1990s”, pubblicato sulla “European Economic Review” di maggio 2010, in collaborazione con Peri e Francesco D’Amuri (Banca d’Italia e University of Essex), Ottaviano ha calcolato l’effetto dell’immigrazione sui lavoratori “indigeni” in Germania, in un mercato del lavoro cioè molto meno flessibile di quello americano. Mentre negli Usa sono i salari a rispondere allo shock dovuto all’immigrazione, per il più rigido mercato tedesco il modello è adattato alle possibili ripercussioni sull’occupazione, oltre che sui salari. Partendo dal presupposto della “sostituibilità imperfetta”, lo studio sdoppia la categoria degli immigrati in vecchi immigrati (che lavorano in Germania da 5 o più anni) e nuovi immigrati. Rileva così in Germania, a causa delle rigidità, del posto di lavoro e dei salari, l’immigrazione ha un effetto negativo sull’occupazione totale. Ma a scapito dei “vecchi” immigrati, gli “indigeni” non ne sono toccati: “Le nostre stime suggeriscono che, per ogni 1dieci nuovi immigrati, perdono il lavoro tra i tre e i quattro vecchi immigrati, mentre gli indigeni non soffrono alcuna conseguenza”.
Lo studio tenta anche un calcolo del “costo effettivo” (perdita di salari e welfare) del flusso migratorio degli anni 1990 per le casse tedesche e il “costo ipotetico” in uno scenario di perfetta flessibilità dei salari. Il risultato è che il costo dell’immigrazione è venti volte più pesante nello scenario reale di rigidità salariale e sussidio di disoccupazione che nello scenario con piena flessibilità salariale e di occupazione.
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