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giovedì 26 maggio 2011

Letture - 63

letterautore

Amico – L’amico dell’Autore non ha in genere buona critica. Ranieri, Maxime du Camp, lo stesso Max Brod, e Adorno nei confronti di Benjamin. E si capisce: sono da meno dell’Autore. Ma senza di loro forse gli Autori non sarebbero esistiti. Anche Leopardi, quello dei “Canti” perlomeno. Mentre Flaubert avrebbe resistito al morbo che lo incupiva e gli impediva di scrivere?

Celan – Certamente ermetico, il teorico della poesia come Atemwende, il soffio, ma atipico, rispetto all’ermetismo italiano, che è musicale (ritmico e melodico). E anzi filosofico, se non logico. Questo non c’è neanche nel trattato di Gadamer, ma Celan si legge meglio, più proficuamente, in questa vena. Il discorso del “Meridiano”, di accettazione del Premio Büchner nel 1960, quello dell’Atemwende e della poesia come “piano di esistenza”, lo spiega, seppure in risposta alle obiezioni di oscurità e nichilismo, tra gli altri avanzate anche da Primo Levi: “Il simbolo e l’immagine non è metafora, ha carattere fenomenico”. O: “Il poema è il posto del singolare, dell’irreversibile” e non dell’allusione. E delle sue poesie: “Non ermetiche ma anzi aperte, larghe per l’occhio che tenta di capirle”.
Lo stesso richiamo al meridiano non è retorico. Celan fu lettore appassionato di Mandel’stam, che celebrò in morte, che della scrittura chiara faceva un distintivo.

Leopardi – È divenuto il grande poeta che amiamo dopo morto. Era popolare tra i letterati e gli eruditi per la preparazione filologica e il taglio acuto delle prose, spesso satiriche. Nonché tra i patrioti per i canti scopertamente politici, “All’Italia” sopra tutti. “La ginestra” e “Il tramonto della luna”, scritti poco prima di morire, furono incluse tra i “Canti” da Ranieri nella prima edizione postuma.
Era popolare tra i patrioti ma non tra i liberali. Di cui egli diffidava e che di lui diffidavano per il pessimismo. Sulla libertà nella Restaurazione ma anche sulla vita, la sua brevità, la sua debolezza, l’indifferenza o l’ostilità della natura, l’illusione del progresso, l’insensatezza del mondo.

A un lettore non prevenuto risulta non pessimista e anzi ottimista. Per il “produttivismo”: Leopardi è instancabile malgrado la debolezza del fisico. Per le attese che sempre nutre, seppure tenui, nell’innocenza, negli affetti, perfino nella solidarietà. Non c’è noia in lui, per quanto aristocratica, o dandystico rifiuto della realtà. E viene fuori comunque come il poeta degli idilli – per i quali è stato letto molto nel Novecento, in Italia e altrove (T.S.Eliot, Beckett, Lowell) più che dei canti filosofici. Anche “La ginestra”, a una lettura ingenua, è una mescolanza di sano realismo (la natura è quella che è, imprevedibile e non regolabile), dell’ultima sapienza scientifica cioè, che Bertrand Russell leggeva come un buon trattato di epistemologia, e di resilience, quieta ma pervicace.
O forse l’equivoco viene dal carattere del pessimismo, che s’intende semplice e univoco e invece non lo è. La questione, discussa e definita più in connessione con Baudelaire, è se certo pessimismo non sia ottimista, un modo critico di porsi e proporre. Pessimismo sarebbe noia e silenzio. La malinconia sarebbe già una forma di comunicazione. E poetare è credere, seppure nella disillusione e la tristezza: soprattutto poetare con ingegno.

Proust - La letteratura dell’ordinario. Dell’ordinario in confronto con se stesso, senza scale quindi e senza corpo, un “la” infinito, interrotto al più qua e là da un semitono. Il diagramma piatto di un corpo sfinito.
È il termine di una civiltà del pettegolezzo svenevole, un po’ come questa età dell’acquario, che non aveva più energia né argomenti di conversazione. E l’inizio di una letteratura delle cose e dello sguardo che evidenzia presto – nella gestazione – i suoi limiti.
È il monumento, eccessivo e definitivo come un trattato scientifico positivista, della letteratura epidermica (di seconda fila, deuxième rayon) di Fine Secolo e l’anticipazione dell’affanno gay a creare una letteratura omosessuale, che si distingue per l’algore, quella passione di testa che si esaurisce nei repertori – l’omosessualità, nelle sue tante manifestazioni, è una forma celebrativa della sterilità. Temi da letteratura di seconda fila (Montesquiou, Lorrain, Tinan, Toulet, Bourget, Bloy, Willy, Colette, D’Houville e le altre innumerevoli dame, Myriam Harry, Renée Vivien, Luice Delarue-Mardrus, Liane de Pougy, Nathalie Barney, Rachilde naturalmente) in lingua parnassiana – più che da Flaubert, l’odiosamato. Con l’effetto di appesantire il cocottismo del genere e esporne con crudeltà – tanto è l’impegno – l’esercizio della bella scrittura (amanti terribili questi scrittori\scrittrici devono essere stati).

È Sade. Non per la cattiveria (filosofia) quanto per l’impianto e l’esito letterario. La gelosia, trattato quattro o cinque volte per un migliaio di pagine, quella di Swann, quella per Albertine, quella di Charlus, etc., o la dottrina salottiera di Mme Verdurin, rateizzata, sono i riempitivi filosofici del marchese, con lo stesso piglio falso dell’autore che non sa di che parla, né lo sente (la tremenda ironia dei proustiani che per dare sostanza a Albertine la raffigurano nello chauffeur): la corrispondenza mostra una natura non appassionata e non sospettosa. Naturalmente Proust è un angelo e Sade un diavolo, e questo è uno svantaggio. Sade ha una passione, la violenza, Proust no. Li accomuna la fredda (costruita) grandiosità, frutto bacato della deriva monomaniacale.
È questo che attrae i letterati: la mostruosità delle quattromila pagine – o diecimila, dipende dal corpo tipografico. La follia, il progetto perseverante del capolavoro definitivo. Lo si condisce di petits o petites, piccole gioie, piccole impressioni, che per ritrovarsi in questa atonalità vengono elevati da modesti accordi a sinfonie, anzi a opere.

La sua opera mostruosa è il tentativo di ricreare il vissuto con il suo stesso ritmo – di mimarlo? Impresa difficile, come sa ogni scolaro delle elementari dell’epoca in cui il compito era il diario (“ieri mi sono alzato, ho fatto le pulizie personali e sono andato a scuola…”). È come rifare il “Don Chisciotte”, che, come sghignazza Borges, anche a rifarlo pari pari può essere un’impresa perdente. Una lettura che impegna centinaia di pagine per alcune scene di un ricevimento fittizio, ma che evidentemente si desidera reale, seguendo un ritmo descrittivo o storico, senza cioè trasfigurare (rappresentare) l’evento, alla Joyce o alla Salinger, questo è delirio.

letterautore@antiit.eu

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