L’ha pagata (la sta per pagare) cara, mentre Mercedes l’ha presa per poco, con un furbo “merger of equals”, al tempo delle vacche grasse, al culmine delle presidenze Clinton nel 1998 che sono state il più lungo boom della storia nota. L’ha presa al fallimento, nel mezzo della crisi mondiale, la più pesante e duratura che si ricordi ultimamente, mentre Mercedes godeva di un mercato sostenuto, coi più alti tassi di motorizzazione dopo i balzi iniziali un s ecolo prima. L’ha rimessa in bonis in meno di due anni, mentre Mercedes l’ha distrutta in dieci. Il soggetto è la Fiat, l’oggetto la Chrysler - la Fiat o meglio Marchionne, non c’è altra Fiat fuori di Marchionne.
Mercedes-Chrysler fu l’opera di Jürgen Schrempp, “l’onore della nazione”, il manager più miracoloso di tutti i tempi della storia tedesca. Uno che girava con una S 600 limousine corazzata da un milione di dollari. Che volle Chrysler per creare la settima potenza mondiale. E dopo nove anni di perdite riuscì a venderla per 5,5 miliardi. Il nome è potenza nel famoso mercato che sarebbe la nostra superiore logica. Anche se al costo complessivo di 70 miliardi di dollari di valore di Borsa per gli azionisti, e di 36 miliardi di dollari sui bilanci della società per ripianare le enormi perdite.
Bisogna intendersi sulla razionalità del mercato. E serve sapere che non c’è un destino nazionale, una superiorità precostituita, in affari e nell’economia in genere. Se non come massa d’urto. La quale è soprattutto convinzione – in Germania ancora non si crede che Chrysler sia risanata, se non per una furbata di Marchionne e la Fiat, perché l’Italia è furberia, la capacità in affari tedesca: non c’è paragone tra Mercedes e Fiat, etc. Il giudizio è pregiudizio.
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