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lunedì 30 maggio 2011

A Sud del Sud - l'Italia vista da sotto (91)

Giuseppe Leuzzi

La vedova Schifani, una donna che ha sofferto molto in questi vent’anni dall’assassinio del marito con Giovanni Falcone, non si dà pace di essersi fidata di Massimo Ciancimino – di essere stata indotta a fidarsi. Avendolo incontrato con la bella moglie e il bel figlietto a Fiumicino, racconta a Felice Cavallaro sul “Corriere della sera”, lo ha cercato e si è lasciata dire che combattono la stessa battaglia per la giustizia. Ora che Ciancimino è stato carcerato non si dà pace che giudici e media l’abbiano tratta in inganno.
Questo è il Sud, la fiducia cieca nelle istituzioni e nei media. Si dice del Sud che è antisociale, mentre invece la sua maggiore debolezza è la socialità eccessiva, l’abdicazione ai poteri. È l’altra faccia dell’anarchismo.

Calabria
È una miniera per la ricerca storica, poiché è inesplorata.

Il cappello calabrese, di feltro nero a tesa larga e a cono alto è stato dei carbonari, prima di essere dei briganti. Tappa intermedia il capo della regina Sofia, l’ultima di Napoli - che nell’estrema resistenza ai Savoia tentò d’incoraggiare i fedeli borbonici e il marito incerto con un abbigliamento maschile e popolano, stivali alti, corpetto stretto, cappellone.
I carbonari si manifestano in Italia a Napoli attorno al 1810. Sono un gruppo di funzionari e ufficiali francesi, che si rifà agli ideali giacobini, e cioè repubblicani, degli Charbonnier, o Società dei buoni cugini, la cui esistenza è documentata in Francia a metà dl Settecento, quale strumento operativo dei Filadelfi, la setta di Babeuf. Animata da agitatori francesi, contro Murat e Napoleone, e finanziata da logge britanniche, è probabile che questa prima carboneria italiana agisse dietro i massisti, la ribellione popolare degli anni 1807-9 in Calabria contro l’occupazione francese.

Maria Sofia di Wittelsbach sarà personaggio di richiamo per la migliore letteratura europea, D’Annunzio, Proust, Daudet. Figlia di Giuseppe Massimiliano, duca di Baviera, chiamata in casa “Spatz”, passerotto, sorella minore della futura imperatrice d’Austria Elisabetta, “Sissi”, fu sposata a diciotto anni a Francesco II di Napoli, ventitreenne. Nel 1859, otto mesi prima della capitolazione di Gaeta e la fine della dinastia. Le regina Sofia, conquistata la corte con la bellezza e con la schiettezza di sguardo e di linguaggio, tentò di salvarla: si fece punto di riferimento del “partito costituzionale”, caldeggiò la nomina a capo del governo del riformatore Carlo Filangieri, criticò la schedature dei cittadini sospetti di liberalismo. Ma l’acrimonia della regina vedova Maria Teresa d’Asburgo-Teschen, matrigna di Francesco II, incrinò il sostegno della corte, e lo stesso Filangieri si ritirò, accampando l’età avanzata.
In esilio dapprima a Roma, nel palazzo Farnese di proprietà dell’ex re, e poi a Parigi, Sofia morirà a Monaco di Baviera nel 1925. Dal 1986 è sepolta a Napoli, a Santa Chiara, col marito e la figlia Maria Cristina.
Grazie alla ex regina, il cui coraggio fu popolare, il cappello alla calabrese venne per un lungo periodo di moda, in particolare in una versione estiva, di paglia.

Prima ancora il cappello a cono era stato di Giangurgolo, la maschera calabrese della Commedia dell’arte. Non c’è uno studio dell’abbigliamento tradizionale, tantomeno del cappellaccio, sia pure di così gran successo. Se ne sa attraverso la storia delle Commedia dell’arte. Giangurgolo è un vantone, sempre affamato. Creato nel 1618 a Napoli da Natale Consalvo, rispecchia l’antagonismo sempre forte tra napoletani e calabresi. A Reggio Calabria divenne popolare un secolo dopo, per satireggiare i “cavalieri” spagnoleggianti, di cui la città si riempì col passaggio della Sicilia ai Savoia. I pantaloni della maschera, a strisce bianche e rosse, riproducevano i colori della casa d’Aragona.

Nel primo Settecento ci fu una massiccia migrazione di nobili spagnoli di Sicilia verso Reggio, dopo che la Sicilia fu passata ai Savoia, nel 1713, in virtù del trattato di Utrecht, e poi nel 1720 dai Savoia, che preferirono scambiarla con la Sardegna, all’Austria. Anche questo si sa incidentalmente, dalla storia della Commedia dell’Arte. Escalar, Salazar, Ponce de Leon sono nomi comuni a Reggio.:

Manca di storia, si è sempre detto – Leonida Répaci ci ha scritto un libro. Gli storici in realtà li ha, e di qualità: Ernesto Pontieri, Giuseppe Galasso, Augusto Placanica, Rosario e Lucio Villari, Gaetano Cingari nel Novecento. Che non si ripubblicano, o non si leggono. Mentre incombono i contemporaneisti, che la storia, un paio di millenni, riducono a feudo e ‘ndrangheta. Un feudo che nessuno conosce da molte generazioni, se mai l’ha conosciuto – volendola vittima, la Calabria lo è semmai del fedecommesso e della manomorta, della borghesia compra dora: la storia della Calabria è più una storia eccezionalmente non feudale. Che in tutti gli evi si caratterizza per il ribellismo, mai ha accettato il padrone o gli ha obbedito, è la sua forma mentis, se non in un rapporto di mutuo rispetto.
Ma è vero che non ha storia. Dei saraceni. Degli ebrei, salvo come storie locali. Dell’ortodossia e della lingua greca. La sua storia ha appunto questa sola traccia, il feudo, sul quale ha ora innestato la ‘ndrangheta, e sopra vi costruisce una massa inerte che continua ad amputare, dentro gabbie sempre più rigide, di pregiudizi e frasi fatte. Né ha una geografia, come non ha un’economia – si dice per la mafia, ma non è per questo, è per l’ignoranza.
Niente sulla Valle delle Saline o Piana di Gioia Tauro, trentamila ettari di uliveti, una foresta di gnomi, Robin Hood e - non ridete - fate, e di agrumeti, con varietà locali di cultivar che potrebbero avere, se tutto non fosse ‘ndrangheta, grande mercato, e colture irrigue che tutelate e valorizzate sarebbero di grande valore aggiunto, la varietà locale di fagiolini (vajaneje), quella dei fagioli di Spagna (pappalauni), la patata di montagna alle pendici dell’Aspromonte. Niente sul monte Poro, a parte le cipolle rosse di Tropea che ormai viaggiano da sole. Niente sulla piana di Lamezia, che pure produce un “Greco” niente male, e un ottimo “Lamezia” rosso. Niente su quella di Sibari. Niente sull’Aspromonte e sul Pollino, e quasi più niente, dopo i fasti del ventennio, sulle Sile. Sul marchesato niente di più dell’occupazione delle terre nel 1946, storia nobile ma limitata.
Questa cecità fa il paio con alcune vistose assenze, pur nella fame di lavoro. D’ingegneri e tecnici idraulici, che distribuiscano le tante acque di cui la regione si gloria, arginino le fiumare, gestiscano i collettori e i depuratori. Di tecnici agrari della collina e della montagna. E anche delle pianure: niente è mai stato inventato sotto i suoi 220 mila ettari di uliveto, di cui circa 170 mila in coltura specializzata, o per le sue 136 mila aziende olivicole, una ogni dieci calabresi, con una produzione annua di circa 2 milioni di quintali di olio, la più grande concentrazione in Italia e nel mondo, e in frantoio si ringrazia la preveggenza dell’ingegner Pieralisi – come del resto tutto il Mediterraneo. Quelli che aveva, del deprecabile regno borbonico, li ha eliminati con l’unità, e niente è stato istruito al loro posto, la tecnica delle coltura va a morire, se non è già morta – qualità? marchi? marketing? distribuzione? La Calabria è come un calzolaio che dicesse: so fare solo le suole, fili, cuciture, colori, tomaie, lacci sono cose di cui non m’intendo – e infatti i calzolai stanno scomparendo.

“Viva il Re! Viva Dio! Era questo il grido dei massisti calabresi durante la guerriglia che sostennero contro i francesi del generale Reyner e di Massena”, ricorda Corrado Alvaro in un racconto di “Gente in Aspromonte”. Del general Reynier in realtà e di Manhes. Ma per il re Borbone, o non contro la leva in massa che i francesi portavano con la libertà? Non si sa molto dei massisti, anzi quasi nulla. Del nome anzi non si sa niente. Per il Battaglia “massista” è il “combattente inquadrato nelle formazioni popolari calabresi. Note con il nome di Masse, e guidate da Capi Massa, che condussero la lotta contro le truppe francesi di Giuseppe Bonaparte negli anni 1806-1807”.

La legge è fredda
La legge è grigia e fredda, anche ei grandi eventi internazionali - ammesso che la “vendetta” internazionale, la ritorsione, possa definirsi una forma di giudizio legale. La legge è fredda in confronto al delitto, che sempre invece sconvolge. È un fatto, ed è centrale nella lotta al crimine organizzato, che lo sa (lo fiuta) e se ne fa forte.
È un fatto noto in Italia, dove l’uomo dalle mille vendette, soprattutto contro i socialisti e contro i democristiani, Giulio Andreotti, mai ne ha menato vanto: sapeva che esse, seppure necessarie a eliminare un avversario, sono politicamente improduttive. O al tempo del brigatismo, che lascia nella memoria l’attacco, la detenzione e l’assassinio di Moro ma non la faccia né il nome di Gallinari e dei suoi compagni, pure perseguiti e condannati. O nelle stragi di mafia, dove le facce di Riina, Provenzano e Brusca dietro la sbarre non escono dall’indistinto e dallo squallore mentre le stragi da loro messe in scena contro Chinnici, Falcone e Borsellino dominano l’immaginario sulla mafia, con un alone, per quanto non voluto, di superiorità.
Le vendette internazionali ne danno una conferma. La notizia periodica che il mullah Omar è stato individuato e ucciso non suscita emozione. Così per Osama bin Laden: la notizia periodica della sua morte non suscitava emozioni, e così pure la sua effettiva morte, benché caricata di uno scenario spettacolare.
Se pure va servita fredda, la vendetta lascia freddi, almeno in politica. Nessun paragone tra il peso politico e storico dell’11 settembre e la fine di Osama, subito dimenticata. O tra la potenza distruttiva sprigionata dal mullah Omar e i talebani in Afghanistan e la caccia oscura che gli Usa gli danno. È un evento nella politica (nella storia) quello che scuote l’immaginario, e per far ciò deve arrivare inaspettato. Meglio se impari, Davide contro Golia. E oggi anche scenografico: devono saltare i colossi di Bamyhan, o le Torri gemelle, o la stazione Atocha. Mentre la vendetta, a opera di soldati senza volto, non fa nemmeno un film d’azione.
Lo stesso l’antimafia: non mobilita perché non ha smalto, perdendosi nelle procedure e nelle beghe politiche. Mobilitare i giovani, con le letture obbligate a scuole, seppure cerimoniali, certo serve. Ma più servirebbe dare spazio alle parti civili, che del crimine sono il vero anticorpo, avendolo sofferto nella carne. E soprattutto colpire il crimine subito, al primo atto estorsivo, e non dopo quarant’anni, ed elaborate tavole sinottiche.

leuzzi@antiit.eu

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