Jacqueline de Romilly, Les Révélations de la mémoire, Livre de Poche, pp. 119, € 5,50
lunedì 6 giugno 2011
C’è dell’altro oltre il niente
L’insorgenza a sorpresa, di un’immagine, una figura, una denominazione, a lungo dimenticata e forse mai vissuta, conferma Jacqueline de Romilly vecchia e quasi cieca nel sentimento che l’ha accompagnata tutta la vita, che “c’è dell’altro”. Oltre l’esperienza cosiddetta sensibile, che poi sarebbe il circuito standard di relais di ogni epoca, o il senso della storia.
Ciò che la grecista insigne narra sono apparizioni “a sorpresa, un bel giorno, a proposito di niente, o di quasi niente”. Ci sono le cose, che dal fondo emergono: la grotta azzurra di Lipari, Toledo, uno studioso classicista mai sentito, la casa di Aix-en-Provence, una vecchia cassetta audio gracchiante della “Belle Hélène” di Offenabch. E sono cose significanti, per molti aspetti. Perfino sfuggiti all’autrice: la casa dei nonni o bisnonni a Aix documenta, nella sua descrizione, una sapienza costruttiva da tempo sparita (le finestre ad angolo del salotto, un diverso orientamento che mette e frutto le stagionalità, la loro altezza diversa, in rapporto con la luce alle varie ore del giorno, lo specchio alto, non per vedersi ma per riflettere la luce al tramonto…). Ma il cui senso è qui un mondo altro, la nostra eternità: “Si potrebbe chiamare questo aspetto durevole e normalmente sconosciuto di noi molto semplicemente eternità”. C’è sempre “dell’altro”: le idee, anche se sono ancora quelle di Platone, la funzione stessa della memoria, del rimembrare, “questo sentimento, a ogni epoca, negli uomini, che esisteva altrove qualcos’altro, di più durevole e prezioso, che la realtà alla nostra portata”. C’è altro che la fatica, l’accumulazione, la solitudine urbana, la gloria, “c’è altro che vivere per niente”. In termini kantiani, o del neo kantiano Rickert, c’è una trascendenza al fondo della ragione: il fallimento della ragione è un segno da leggere, uno dei segni che manifestano che “c’è dell’altro”. Ma il suo “c’è dell’altro” Romilly preferisce accostare al “c’è un senso” di Yves Bonnefoy, il poeta.
Si dà un ricordo come scintilla dell’incendio (Proust, Makine, Bawn), o come testimonianza, o come spunto di riflessione. E si dà un déclic, lo scatto: una rivelazione, un ricordo che può anche propriamente non essere un ricordo. Jacqueline de Romilly, morta qualche mese dopo l’uscita di questa sue ultime riflessioni, sfrutta il “privilegio del grand âge”, dell’età avanzata – il francese ha questo privilegio, di chiamare grand âge, come dire Gran Secolo, età d’oro, quella che per noi è semplicemente l’età avanzata. Il privilegio della memoria cioè casuale, random, non più fallace di quella dell’età più giovane, ma non legata al quotidiano. E, nel suo caso, della cecità progressiva (Romilly cita le sorprese analoghe narrate da David Lodge per la caduta dell’udito). Sa per professione che il ricordo o la memoria sono spesso falsi, legati all’esperienza. Né indulge in quelli che da studiosa ha classificato “ricordi dimenticati”, sedimentati cioè, con l’uso, nelle generazioni, più spesso familiari, e quasi tutti insignificanti. Ma in questi casuali, irrilevanti, e tuttavia nuovi, sorprendenti, precisi lampi della memoria, coglie la rivelazione di un mondo che va oltre le sinapsi.
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