Se Gheddafi non si suicida potrebbe finire male. A cinquanta giorni dall’ingresso dell’Italia nei bombardamenti, il 26 aprile, e a cento dall’inizio delle operazioni cosiddette Nato in Libia non se ne vede la conclusione. Anche perché non si sa quale dev’essere. E i governi cominciano a ripensarci. Per i costi e non solo. A cominciare da quello americano, e da Sarkozy e Cameron, che diradano l’impegno. Praticamente, a bombardare è rimasta sola l’Italia.
La resistenza del colonnello ha fatto sorgere brutte ombre a Bruxelles, al quartier generale dell’Organizzazione atlantica. Per un diffuso senso d’inutilità. La facile missione militare in Libia ha avuto paradossalmente l’effetto di mettere l’Alleanza di fronte alla domanda: che ci sto a fare? Il disorientamento è palese nel segretario generale Rasmussen, la cui ultima uscita, ormai remota, è stata per dire: “Non sappiamo quando la guerra finirà”. E le diplomazie accreditate non hanno mancato di segnalarlo. La Nato sa solo che non può ritirarsi, sarebbe una sconfitta.
Anche gli alti vertici militari, in Italia e altrove, sono preoccupati. Non sono critici, il loro primo riflesso è di difendere le spese militari, sempre e comunque. Fronteggiano così un altro paradosso che la crisi libica sta montando: l’indifferenza, delle popolazioni e dei governi. Ci sono bombardamenti ogni giorno, massicci e cruenti, ma non emozionano nessuno, neppure in senso critico. L’esito potrebbe essere, una volta conclusa in qualche modo l’avventura libica, un abbandono sostanziale delle politiche militari e di armamento.
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