venerdì 17 giugno 2011

I due duellanti – De Benedetti vs. Berlusconi (6)

La sfida continua nei media. Anche in politica, per la verità. Con identico schema, se ci si rifà alla cosiddetta Prima Repubblica, quando gli schieramenti avevano senso. Dc con appoggio socialista Berlusconi, Dc con appoggio comunista De Benedetti. Berlusconi tra Andreotti (tenne fermo il governo contro la dimissione di cinque o sei ministri demitiani contro Berlusconi…) e Forlani, De Benedetti con De Mita - che impose a Scalfari e Caracciolo, quanto di più penitenziale per i due high tories - e Prodi.
In politica in astratto non c’è gara, De Benedetti non corre. Non personalmente. Persegue però con determinazione, da almeno trent’anni, il disegno di fare un centro-sinistra a guida centrista, che, bisogna concedergli, non è facile. È stato aiutato da Prodi in affari, nelle dismissioni Iri, e ha aiutato Prodi nelle vittorie elettorali – con un contributo che lui ritiene determinante, e probabilmente lo è stato. Ma essendo fortemente prevenuto contro gli ex Pci, D’Alema soprattutto e alla fine anche Veltroni, si trova sempre a metà strada. Una rivincita è ora dietro l’angolo, con la candidatura di Prodi alla presidenza della Repubblica fra due anni, alla quale De Benedetti è attivamente impegnato e che lo sparigliamento di Fini e Casini rende possibile – ma gli resta da convincere Bossi e, sotto sotto, anche Di Pietro.
La sfida vera tra duellanti resta però nei media. Non tanto sulla questione della proprietà. La controversia Cir-Fininvest è stata riaperta dal giudice, De Benedetti ne è rimasto sorpreso quanto Berlusconi. Col lodo Mondadori, per il quale la giustizia lombarda ora gli fa regalare 745 milioni da Berlusconi, e la successiva quotazione di Repubblica-L’Espresso in Borsa, contro il parere di Scalfari, De Benedetti s’intascò 252 milioni che invece avrebbe dovuto dare al fisco. Che ora glieli contesta e ha ottenuto di riaverli indietro. 
In materia di affari i due non si fanno fregare. La gara è sull’idea: su chi è migliore notabile - editore, padrone occhiuto di giornali e giornalisti, innovatore, padre della patria.
Berlusconi si conferma nelle ultime due consultazioni elettorali, per i Comuni e i referendum, irrimediabilmente antimedia: non capisce nemmeno i segnali evidenti. Pur facendosi forte dei suoi sondaggi. Conferma cioè che è un fenomeno politico antimediatico, e questo potrebbe addurre a suo vantaggio: che è al di fuori dell’opinione pubblica, o populismo che dir si voglia. È padrone dei media, di una parte consistente di essi, ma non li usa o non li sa usare. Per fare soldi sì ma non per fare opinione. E quando l’opinione è netta non la cavalca: si potrebbe dirlo un uomo di principi invece che un opportunista.
Particolarmente significativa è l’insensibilità che Berlusconi esibisce sulla sconfitta di Milano, che è a tutti gli effetti una catastrofe. Anche perché il sindaco e la giunta sono stati i migliori degli ultimi vent’anni. Anche Napoli è una sconfitta, che era una città già conquistata e senza difese. Berlusconi ha capitalizzato sulla voglia di cambiare, di rompere con la morsa del compromesso, e degli interessi costituiti che il compromesso difende. Ma non ha saputo cambiare, e forse non poteva perché il paese non glielo consente – che ora se ne fa beffe. Il paese che è da vent’anni nient’altro che Milano, la sua città, l’establishment di Milano, la parte “migliore”, l’arcivescovado e le banche, che ora rincorrono scopertamente l’ipotesi neoguelfa, della nuova Dc. Il re dei media è il più grande Antipatico e Antipatizzante che sia stato dato vedere in tv – non fosse per l’aspetto burla che la sua maschera sottintende ma non è vero.
È pur vero che Berlusconi re dei media lo è: lui lo pensa, lo vuole. La verità è dunque doppia. E ha un doppio fondo nascosto. Uno è che Berlusconi non fa l’opinione, ma si lascia fare dall’opinione – non fa l’agenda ma la recepisce. L’altro è che si lascia fare da un’opinione contraria – apparentemente contraria? È l’opposizione, non il supposto re dei media, che fa l’agenda in Italia. Quasi ogni giorno con rinnovata verve, e sempre ultimativa: il Grande Centro di Fini e Casini, quello di Montezemolo e Della Valle, quello di Tabacci e Montezemolo, la sfiducia, Zappadu, le minorenni, le escort, il lodo Mondadori, la Carfagna, la Mussolini, e i tanti ministri che gli fanno le scarpe, Alfano, Tremonti, Gianni Letta. Quasi mai un tema è imposto da Berlusconi. Che al contrario non se ne fa scappare nessuno dell’opposizione.
Volendo razionalizzare, questa opinione gli è contraria solo in apparenza: gli consente cioè di governare non governando. Che nel suo caso vuol dire impedire la funzione di governo: catturarlo, farselo prigioniero, per impedirne il funzionamento. Ci sono delle cose che vanno, che sono sempre andate nei suoi due governi – il primo gli fu impedito da Scalfaro. L’adeguamento dei conti pubblici ai parametri dell’euro, per esempio, della stabilità monetaria. La lotta alla mafia, condotta con freddezza, come un dover essere, come deve uno Stato. Il contrasto dell’immigrazione clandestina, che è un malaffare prima che un’opera di carità come dicono i monsignori. Qualcuno (per esempio D’Alema, Napolitano) potrebbe aggiungervi le guerre, la risposta pronta agli appelli degli Stati uniti. Anche la legge Biagi, ma già suo malgrado, e forse senza nemmeno sapere di che si trattava (di stabilizzare il lavoro precario). Ma tutte le cose di cui l’Italia aveva e ha bisogno, che sempre promette, non le ha mai avviate: la giustizia, una delle massime diseconomie dell’Italia; un fisco almeno semplificato, dato che non si può ridurlo; una legge sulla concorrenza che apra un po’ il mercato, alla legalità e gli investimenti esteri; le opere pubbliche (la Milano-Lione, l’Alta Velocità con la Svizzera, il Ponte sullo Stretto, la variante di valico); le leggi sulla bioetica.
Ma sui media come business, la televisione, i giornali, i libri, Berlusconi non ha sbagliato mai un colpo. Mentre è sui media che De Benedetti più soffre di stare indietro a Berlusconi. Senza gelosia: ha offerto a Berlusconi di fare parte dell’ambizioso progetto CdbWebTech, e Berlusconi si lasciò sedurre dall’idea di fare soldi con la rete – salvo defilarsi saggiamente al momento di metterci i soldi veri (fece al rivale un elegante portage pubblicitario). Berlusconi è riuscito in tutto, sa fare perfino i periodici, che per De Benedetti e gli altri editori sono zavorra. Ma soprattutto ha avuto la sua idea: la pubblicità. Un mercato che ha “creato” (trent’anni fa lo portò in pochi mesi da mille a diecimila miliardi l’anno), facendolo fruttare sugli “spazi” gratuiti delle frequenze e dell’Auditel.
De Benedetti, che poteva aver trovato la sua idea nella telefonia mobile, viste le applicazioni che essa oggi consente, anche nel mercato pubblicitario, non ha resistito alla tentazione del superguadagno immediato. Poi, sono ormai una dozzina d’anni, ha puntato sul web. S’informa, anticipa, investe (poco), dapprima con Kataweb, di cui voleva fare una delle famose start-up dot.com, ma non ci riuscì, poi con CdbWebtech, anch’essa virtualmente fallita, ora con “Repubblica” online. Con i tanti progetti di far pagare la lettura, ma coi soli (magri) introiti della pubblicità. E una serie di stati di crisi che hanno minacciato l’integrità patrimoniale dell’Inpgi, l’istituto di previdenza dei giornalisti.
È attesa ad horas – è in ritardo già di un paio di mesi – la decisione della Corte d’appello di Milano sul processo Cir-Fininvest per la Mondadori. Si sa già che la sentenza non sarà decisiva, e che la partita sarà decisa in Cassazione, quindi fuori di Milano. Come si sa che la Corte d’Appello non darà ragione alla Fininvest, pur riducendo la penale rispetto al primo grado, quando il giudice monocratico le comminò un’ammenda di 745 milioni di euro – alla corte d’Appello è stato “autorevolmente” suggerito (la giustizia a Milano e in Italia si fa così) di ridurre la penale di 250 milioni. Non sarà dunque l’ultimo atto, e probabilmente nemmeno il penultimo, di un “mano a mano” come si diceva nelle corride, di una sfida di bravura fra Berlusconi (Fininvest) e De Benedetti (Cir). Che si rispettano personalmente, ma se le danno senza esclusione di colpi da cinquant’anni, non appena possono. Con De Benedetti, bisogna dire, che rincorre Berlusconi, finora più bravo e più fortunato – più ricco non si sa, essendo De Benedetti da tempo residente fiscalmente in Svizzera.
Sembrano diversi, ma molto hanno in comune. La ripubblicazione recente di Mandeville, “La favola delle api”, il teorico dei “vizi privati pubbliche virtù”, con prefazione di Carlo De Benedetti, meglio sarebbe attagliata, si è detto, a Silvio Berlusconi. Coetanei, De Benedetti del 1934, Berlusconi del 1936, figli di famiglie di media fortuna, l’hanno tentata in proprio comprando e vendendo immobili, la tappa tradizionale per chi ha talento ma non capitali, negli anni del boom. Con pari successo. Poi però Berlusconi le ha indovinate tutte o quasi, De Benedetti le ha fallite tutte o quasi.
Berlusconi s’è fatto imprenditore, prima nell’edilizia, poi nella pubblicità, infine nell’editoria, tre settori dove ha sempre guadagnato – non ha mai licenziato nessuno (il che, nelle logiche milanesi, è un caso unico e forse un miracolo). Carlo De Benedetti pure è partito con l’immobiliare – comprare la mattina a dieci e rivendere nel pomeriggio a cento. Nel 1972 col fratello Franco rilevò l’immobiliare Gilardini, che fu trasformata in holding, di attività soprattutto automotive. Fu un successo, che portò Carlo alla guida degli industriali piemontesi nel 1975 e nel 1976 in Fiat, con una quota in cambio del gruppo Gilardini, e l’incarico di amministratore delegato – i rapporti erano buoni con gli Agnelli, di cui i De Benedetti erano stati inquilini a lungo, e per l’amicizia di Carlo col coetaneo Umberto, compagni di scuola al ginnasio. Poi passò alla finanza, con esiti alterni.
Ha fallito la scalata a Société Générale, alla Sme e a Mondadori, nonché alla Fiat, l’episodio forse più increscioso, dove già in novanta giorni era riuscito a operare contro gli Agnelli che l’avevano nominato amministratore delegato – e per questo era stato licenziato bruscamente. Più sul ridicolo l’operazione Société Générale: si recò un lunedì mattina dei primi del 1987 dal presidente Étienne Dauvignon a dire l’acquisto già fatto, con un vassoietto di marrons glacés, da vincitore benevolo, ma i potenti soci del grande gruppo laico franco-belga lo lasciarono fuori della porta.
Dove è riuscito c’è l’ombra dell’usura: nel Banco Ambrosiano di Calvi, e nell’acquisto del gruppo L’Espresso-Repubblica, con evizione di Scalfari. O della speculazione: l’acquisto-vendita di Buitoni, e l’acquisto-vendita di Omnitel-Vodafone - qui a ottimo prezzo, con un guadagno netto in pochi mesi di tredicimila miliardi di lire del 1996, ma la licenza Omnitel aveva avuto con una serie d’incontri, anche conviviali, con Berlusconi e i suoi collaboratori a palazzo Chigi sul finire del 1994, qualche giorno prima di “segarlo” con i suoi giornali. Dappertutto De Benedetti ha seminato licenziamenti, e quando ha tentato l’imprenditoria, alla Olivetti, è finito addirittura in un fallimento.


Come Berlusconi ha anche sfiorato in più punti la giustizia. Alla Olivetti per le forniture alla pubblica amministrazione e le morti sospette in fabbrica. Nell’affare Sme per avere avuto da Prodi, allora presidente dell’Iri, un gruppo da 5 mila miliardi a gratis. Anzi con un attivo di trenta miliardi, su un prestito a titolo gratuito di 300 miliardi da parte dello stesso Iri. L’operazione, svelata dai quotidiani “Reporter” e “Il Manifesto”, non andò in porto. Ma fu l’inizio delle guerre con Berlusconi, che promosse una cordata alternativa di acquirenti con Barilla e Ferrero. Anche questa vinta sul piano giudiziario: lo scandalo dell’accordo con Prodi fu rapidamente insabbiato dalla Procura di Milano, che invece inquisì e processò a lungo, con dispiego di mezzi, specie la giudice Boccassini, Berlusconi.


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