Si razionalizza molto su questo povero mercato che governa la globalizzazione: la mano invisibile (della giustizia sociale), la produttività, i prezzi decrescenti, i consumi per tutti. Con la ciliegina democratica: non è la ricetta perfetta ma è la migliore possibile. Poi si guarda alle cose, e il panorama dietro tanta ragionevolezza è solo sperequativo, in misura perfino assurda.
Il panorama è molto semplificato, semplice da capire. Guardando alle cose politiche (e militari), monetarie, culturali. C’è il dollaro-sterlina, gli Stati Uniti d’America con l’appendice Gran Bretagna, i famosi anglosassoni vituperati da De Gaulle, con corteggio di buoni propositi: la libertà, la stabilità, la sicurezza, la difesa dei diritti umani e civili, il benessere e i consumi per tutti. E naturalmente un’etica superiore (“io e il mio dio”), comprensiva della lotta alla speculazione. Che invece è il pilastro di questo asse: utilizzare il resto del mondo come punching-ball, alle cui spalle prosperare. Un ex presidente della Federal Reserve, Paul Vocker, che dice di temere “la disintegrazione dell’euro”, come ha detto un mese fa, sa benissimo che lo dice per accelerarla.
Meno stato più mercato è peratro formula ormai nota per significare una sudditanza degli interessi pubblici o sociali a quelli dell’arricchimento.
Si prenda il rischio americano di default della finanza pubblica, che tiene la Cina e il mondo col fiato sospeso, ma l’America vive quasi in allegria, comunque dormendoci la notte. Fu il grande liberista Reagan a moltiplicarlo negli anni 1980: per diciotto volte si fece aumentare dal Congresso il tetto all’indebitamento (che negli Usa è fissato per legge…), e il debito che aveva preso al 32 per cento del pil lo lasciò dopo otto anni al 53. Gli altri liberisti repubblicani, Bush padre e figlio, lo portarono all’82 per cento. Ora con Obama – che perlomeno non è liberista, non è ipocrita, e poi ha avuto la crisi di tre anni fa - salirà al 100 per cento. Il mercato è questo.
Sul mercato il circuito operativo e di comando, che i default di tre anni fa hanno evidenziato ma che è sempre stato ed è all’opera, vede le banche Usa-Uk, coperte dai rispettivi governi, creare le crisi (le bolle: le dot.com, per le quali si crearono perfino delle Borse speciali, i futures, il credito facile, ora il credito difficile, credit crunch), nelle quali realizzare ogni volta superprofitti da capogiro. Grazie alla agenzie di rating, privatissimi organismi che decretano di volta in volta sui debiti di quali aziende e quali governi puntare per realizzare, con la spremitura finale, partite di caccia grossa. L’Italia ne ha fatto l’esperienza nel 1992 – insieme con la Gran Bretagna, che da allora si è perfettamente allineata all’asse Usa, abbandonando ogni velleità europea.
Nella realtà non succede così, non c’è un complotto. Non c’è Obama che si siede a un tavolo con la regina Elisabetta e insieme decidono dove e come colpire – anche perché: chi è Obama? Ma è così che le cose funzionano, è il modello che ci imprigiona, carcerati peraltro volontari. Il circolo del mercato del Millennio è certamente originale. Ma soprattutto per basarsi sulla convinzione. Anche sulla forza: gli Usa, con l’appendice inglese, non ammettono “scissionisti”. Ma preferiscono i buoni discorsi. Siamo così tutti convinti che sia giusto che sia giusto, che si arricchiscano le banche e i governi “anglosassoni”, anche se a nostre spese.
Il modello è la perversione mentale della piccola borghesia. Gelosa e insieme invidiosa, vogliosa di farsi, volpe, leone. Adottato in chiave internazionale: funziona, tutti servi volontari.
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