Sono poesie scelte dalle ultime pubblicazioni di J. Risset, tradotte da lei stessa. Mantenendo il mistilinguismo che caratterizza l’originale, con inserzioni di italiano e inglese. È il privilegio del traduttore, quando di più lingue è padrone – e una gioia incontenibile, anche se rara: il caso più illustre è Joyce – cui Jacqueline Risset ha dedicato il suoi primi studi, al Joyce “italiano”, che partì dalla coda “parlata” e non tradusse ma scrisse. Risset lo pratica a ragion veduta.
Ma è felice e insieme infelice sorte, avere più culture. Infelice perché oggi isola. Invitando a disperdersi, nella moltitudine moltiplicata delle possibilità, invece che a scegliere e a investire, operosi, progettuali, determinati. Riproduce in micro la dépense primitiva, una condizione isolante nell’età dell’accumulo – del tempo senza tempo, dei punteggi per la carriera. Il mistilinguismo, che è l’approdo della condivisione delle culture, diventa un po’ palude, l’angoscia del traduttore letterato, l’abbondanza-mancanza di parole, perché chi possiede più lingue continuamente inciampa in cose “che rifiutano di lasciarsi tradurre”: Jacqueline Risset stessa lo annota, la traduttrice-creatrice della “Divina commedia” in francese, che ha vissuto questa ventura. Che è biunivoca o bidirezionale: come alcune cose in francese vanno dette in italiano, o in inglese, così traducendosi in italiano la poetessa non può privarsi di un’espressione francese.
Ma sono molti i segni di questa raccolta, operata dalla stessa autrice tra le poesie date a stampa negli ultimi venticinque anni (la sua prima raccolta risale al 1971, “Jeu”). Le variazioni sottili (trasmutazioni) dello spazio e del tempo in “Essere alla finestra a Roma”, su fatti e detti di forte impatto, etico, visivo, ne sono la cifra e la misura. Lieve è la cifra delle voce: “Voce che crede\ esser nata dal nulla\....\ voce di puro futuro”. La meraviglia di vedere in una Roma “di oriental zaffiro”, nella piscina della Nocetta, “un giovane mostro con volto di vecchio\ (che) nuota piangendo”.
L’istante del titolo, e dell’ultima raccolta antologizzata, “Les Instants”, col maiuscolo, è anche, se non di più, una presenza in realtà. Talvolta costante, perfino oppressiva, altre labile. Fuggitiva, ma così è del tempo, che fugge comunque, anche tra gli “istanti”. “Lampo”, la prima poesia di questa raccolta, del 2000, l’avvicina a un’altra lettura curiosamente contemporanea e visiva, quella dei “ricordi” sorprendenti di Jacqueline de Romilly (“Les Révelations de la mémoire”) - filosofici questi ma della stessa natura, la sorpresa.
“Les Instants” è d’altra parte tra i pochi esempi di poesia civile francese del Novecento(o bisogna già dire del Duemila) – e, dopo Pasolini, rara anche in Italia. Ma su tutto prevale la ricerca e il diletto del suono, che sovrastano anche i ricordi e le emozioni. Mallarmeano questo, indotto probabilmente dalla pratica di Jacqueline quale traduttrice, di assonanze, risonanze, dissonanze (“terre\mère, tâche\cité, le fer e le verre). Intessuto dei sogni della successiva pratica surrealista-analistica: le inversioni, i giochi di parole (infime\infame, la planète bleu-bleutée, la haute atmosphère). I sogni come dissoluzione della realtà, o meglio composizione dell’irreale, dei “concetti (che) sono nuvole” (p.25).
Della nuovissima fisica francese quella, del Nobel Charpak: “The Shape of Sound”, del poema con questo titolo dedicato a Jakobson e Gertrude Stein, è la forma della storia nel suono. E della letteratura, Jacqueline Risset ha ottimi antenati. Di Flaubert e di Proust oltre che di Mallarmé, ma anche della fisica del letterato Rouseau, testimonial inatteso pure Chateabriand: il senso, il sound, e la sua forma (la “musica”). È anche il vissuto del traduttore, le parole trasformare in parole.
Jacqueline Risset, Il tempo dell’istante, Einaudi, pp.193 € 14,50
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