Sarà stata la mossa decisiva, ancorché avventurosa come nessun’altra, di Marchionne. Tale da rilanciare la Fiat, che per il resto langue, tra vendite contenute e debiti alti. Ora il gruppo italiano, comprensivo di Chrysler, ha debiti per circa 40 miliardi di dollari, e cresce in Borsa e nelle stime degli analisti.
Per molto meno in passato, quando le si portavano a debito anche le vendite a credito, la Fiat è andata vicina al fallimento. Ma quella era un’altra epoca: la Fiat era una delle tante prede che le banche angloamericane azzannavano, e azzannano, con profitto. Marchionne si è invece messo dalla parte del “sistema”. Prendendosi la Chrysler, la più disastrata dei fabbricanti d’auto, al punto che nemmeno la Mercedes era riuscita a cavarne nulla, se non quasi dieci anni di debiti e perdite. Salvata da Obama, ma a un costo da strozzinaggio: lo stesso Marchionne, che per prima cosa ha ripagato il debito verso il governo Usa (5,8 miliardi) e verso quello canadese (1,7 miliardi), ha spiegato che pagava a Washington il 14 per cento e al Canada il 20 – shyster disse l’ad di Fiat questi prestiti, da imbroglioni.
Obama è la carta vincente, finora e fino a che durerà il fenomeno Obama, di Marchionne. Che l’ha riconosciuto, chiedendo scusa per lo shyster, e si prodiga per dare una mano. Obama fa, ormai con chiarezza, della rinascita di Detroit il perno della campagna per la rielezione l’anno venturo. E Marchionne da qualche tempo è soprattutto impegnato a rilanciare la Chrysler, sul prodotto e sulle vendite. Grazie anche, bisogna dire, a una riduzione dei costi che è riuscito ad ottenere con i sindacati, dei salari e dei fondi sanitari, di tre miliardi di dollari l’anno, pari a 1.500 dollari per auto prodotta. È così, grazie alla politica e ai sindacati, che l’unione di due debolezze potrebbe trasformarsi in un successo.
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