Una giornata da “Decamerone”, tra una compagnia di spiriti eletti, isolati in un salotto dalla peste nazista che infetava Parigi, il 5 marzo 1944. Ad ascoltare Bataille discettare di peccato una lista interminabile di celebrità, tutte interessate poi a discuterne con lui: il futuro cardinale Danièlou, il commediografo Adamov, Blanchot, Camus, Merleau-Ponty, De Beauvoir con Sartre, molto polemico, Klossowski, Hyppolite, Massignon, Leiris, Paulhan, Prévost. E nell’elenco è trascurato Gabriel Marcel, quello che contrappunta con più appropriatezza l’oratore.
Il
set è la cosa migliore. Il peccato di Bataille la più sorprendete: nazismo puro. L’ennesimo “rovesciamento” del peccato come giudeo-cristianesimo (non menzionato, ma si sa). Non allegro o propositivo, come ci si aspetta da una proposta rivoluzionaria e non vendicativa. E anzi lo stesso Nietzsche (l’esposizione di Bataille poi confluirà nel suo “Nietzsche”) assume cupo. I religiosi, Daniélou, Maydieu, Burgelin, protestante, scantonano, fra omaggi al “tono convincente” del relatore e commistioni confuse di misticismo sacro e peccato battagliano. Sartre invece a un certo punto glielo dice: “Non vedo perché, secondo i vostri principi, non si dovrebbe violare gli esseri come si beve una tazza di caffè”.
La “morale volgare”, il cristianesimo, il bene e il male, è noiosa, la derivazione nietzcheana prende molte pagine. A favore di un’etica del culmine e del declino. Che si governa attraverso il peccato costante, la violazione degli altri che è anche violazione del sé, eccetera. Klossowski, che dell’esposizione di Bataille al seminario si assume la sintesi, così glossa: “Il culmine corrisponde all’eccesso, all’esuberanza delle forse. Conduce al massimo l’intensità tragica. Si lega agli sprechi smisurati di energia e alla violazione dell’integrità degli esseri” Al declino, “che corrisponde ai momenti di esaurimento e di stanchezza”, fanno capo “le regole morali”.
Lo stesso Klossowski nel dibattito si dà queste ragioni: “«Essere colpevole o non essere», ecco il dilemma, perché essere senza colpevolezza, per Bataille, significa non spendere, non poter spendere, non avere nulla da dare”. Senza peccato è il ritorno dell’uguale se stesso, la noia, l’insignificanza (sarà il “dibbattito” in Italia, a Roma, naturalmente annoiato, di trent’anni dopo). Ma a un certo punto se ne accorge, che soprattutto “il mondo del peccato è noioso”. Gli sarà balenato l’amato Sade, che nei piaceri si annoiava, ed è noiosissimo.
Ma non è di improsamenti liberi che a marzo del 1944, a casa di Marcel Moré a Parigi, l’intelligenza francese occupata discute. Incalzato da Hyppolite, dopo Sartre, lo stesso Bataille candido lo ammette: “Il peccato è la violazione degli esseri”. Pretendendolo naturalmente rigeneratore: in grado di sovvertire il declino, e rilanciare l’ascesi, che sono i suoi due assi della storia, invece degli aborriti bene e male – ancora Nietzsche. Una morale inappellabile (inspiegabile). Che si vuole anticristiana, ma si fa forte del peccato, che è concetto cristiano. Travolgendolo in libertà. Magari del nulla, interno ed esterno.
Ci siamo salvati perché Hitler ha perduto la guerra. Il nazismo, si dice, è “affondato” nell’Olocausto. Come se avesse potuto evitarlo. Ma si vuole dire che ha solo perduto una guerra.
Georges Bataille, La condizione del peccato, Ass. Eterotopia, pp. 169 € 8
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