In un’esile plaquette come questa, poi confluita anch’essa nel “Canzoniere”, la poesia di Saba è doppiamente quella che è, semplice, spoglia. Incantata. Elegia sommessa, a ridosso della guerra e dell’odio antiebraico, che Saba evoca nella dedicatoria a Alberto Mondadori a fine 1946 come fatti remoti, dopo “un anno felice” a Roma, e il premio Viareggio in estate. Più che mai qui Saba non è l’“uomo in fuga” di Debenedetti, con la psicologia dell’escluso, e “l’innata malinconia” dell’ebraismo. Pascoliana nei temi, questa poesia è l’esito migliore nel Novecento del petrarchismo che Saba depreca nella stessa lettera (“gli italiani... non sopportano, in poesia, la vita senza averla preventivamente uccisa e mummificata”) in versi “tecnicamente perfetti”, per Linuccia e “Telemaco”, “per una donna lontana e un ragazzo\ che mi ascolta, celeste” – da qui l’equivoco di Alfredo Gargiulo alla prima pubblicazione del “Canzoniere”, che evocò il Tasso minore e il Metastasio, amareggiando a lungo l’ipersensibile Umberto?
Umberto Saba, Mediterranee
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