L’eccezionalità della cultura fascista in Italia è che non ce n’è una. C’è un’architettura fascista, sicuramente, e una pittura, anche e più in generale un’arte visiva e grafica (gli apparati di propaganda, efficaci ancora oggi), ma non c’è una cultura in senso stretto, spirituale. Una teoria cioè e un linguaggio: una filosofia, una storia, una letteratura (poetica, narrativa, memorialistica), una musica. C’è in Germania, eccome, in tutti i campi una nazista malgrado i pochi anni del regime di Hitler, e di forte spessore, non c’è in Italia. Gioacchino Volpe o Carlo Curcio non si possono dire storici fascisti in nessun modo, o Spirito o Gentile o qualunque altro filosofo in qualche modo espressivi del fascismo, o scrittori fascisti Pirandello, Bontempelli, Alvaro, eccetera. Neppure D’Annunzio, che più ha le carte in regola, e non solo per motivi di concorrenza personale, né Marinetti.
Si fa molto il caso, anche Tarquini in questo libro, delle acquiescenze degli intellettuali al regime, in certi periodi, più o meno convinte, ma è tutt’altra cosa: può essere il segno di una debolezza, o un errore di giudizio, o una scelta alla meno peggio, ma non c’è l’adesione che porta al linguaggio. Tutto ciò, sembra dire Tarquini, in presenza di una “politica culturale del regime” opulenta, quale l’Italia non ha mani sperimentato, né prima né dopo, con fondazioni, opere, accademie, e con finanziamenti sempre ricchi. Ma non lo dice. Rimarca che, in quanto a “ideologie” o manifesti, c’è un profluvio di opere, di nessun impatto. Ma sul secondo dei tre settori nei quali ha scomposto l’argomento “cultura e fascismo”, e cioè la scrittura o il pensiero fascista, l’“espressione del sapere” (gli altri due sono la politica culturale e le ideologie), sorvola. La sua è piuttosto una storia del fascismo per l’aspetto cultura, come (e con quanta abbondanza) Mussolini se ne occupava.
Alessandra Tarquini, Storia della cultura fascista, Il Mulino, pp. 248, € 18
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