domenica 31 luglio 2011

Le parole hanno occhi

“Nata per guardare oltre le oche, nei campi”, si diceva Rosa Luxemburg. Hertha Müller non era nata per “fare la guardia alle mucche”, senza orologio, fino al passaggio del quarto treno della giornata, che significava le otto di sera, e fin da bambina se ne separò, in un mondo suo.
C’è anche un mondo agreste di estrema indigenza, negli anni 1960, nel Banato che non è la zona più arretrata della Romania, uno di quei paesi dove il comunismo è stato persecuzione. Qui di una comunità tedesca e tedescofila, hitleriana non pentita, ma di buoni lavoratori e del poco che avevano accumulato, nelnome di un socialismo che è solo dittatura. Di estremo interesse nella rappresentazione che una diecina d’anni fa ne dava la scrittrice ora illustre. In questo libriccino che però ha lasciato senza parole, pur contenendo il travolgente “In ogni lingua dimorano altri occhi” oltre il testo del titolo, in traduzione eccellente, firmata Fabrizio Cambi, a giudicare dalle (mancate) reazioni: il Muro resiste in Italia, anche al Nobel.
Hertha si racconta, ci racconta, le sue favole da bambina. Della scoperta del mondo cominciando dalle parole. Che emergono sottili, radicali, angoscianti, di giorno con le mucche lungo la ferrovia, che tante novità apporta, di notte ai piedi del letto, accanto alla stufa. E a un certo punto diventarono terribili, quando il re rosicchiato degli scacchi intagliati dal nonno s’incarnò nella tortura e l’assassinio, specie nella forma beffarda del suicidio. Ma questa è la verità.
Di Hertha Müller la Germania apprezza soprattutto il linguismo, la capacità di dare senso alle parole e concretezza al linguaggio, anche quando innova, il lessico, la costruzione, il senso. I migliori interpreti del tedesco nel Novecento saranno dunque stati due marginali o “minoritari”, entrambi proveniente dalla Romania, alla scrittrice neo premio Nobel per la letteratura, tedesca del Banato, va affiancato Paul Celan, il poeta originario della Bucovina. Due parlanti un vecchio dialetto, Celan essenzialmente lo yiddisch, Müller poche parole in versione corretta, che affrontano la lingua come un architetto le figure, con sicuri criteri ma ogni volta innovativi.
Qui Hertha Müller si applica al senso, ed è travolgente anche in traduzione. Opera non minore, malgrado la brevità e l’originaria occasionalità (sono due articoli-conferenze), di narrazione densa: un’esposizione adeguata dovrebbe essere una borgesiana riproduzione. Di un’infanzia vissuta nel “nudo venirmi incontro della caducità”, in campagna, territorio che sempre s’intende vitale e invece è morto, “nel cerchio vorace delle piante”, o nel “fiorente banchetto di cadaveri” che sono i fiori, il granturco: “Ogni paesaggio si esercitava alla morte”. Senza sbocco: “Non è vero che ci sono parole per esprimere ogni cosa. E non è neanche vero che i pensieri sono fatti sempre di parole” – cosa vera anche per Celan: l’indicibile può essere soverchiante. Sperimentando fin da bambina “nomi veri”, per esempio per il cardo da latte.
O la scissione è provocata, e anche questo vale a maggior ragione per Celan, nell’intelligenza e nell’espressione, dalla doppia o tripla appartenenza. Nel primo contributo, Hertha Müller paga infine un tributo alla rumenità. Alla lingua rumena, con esempi esilaranti di come si dice in rumeno e come si dice in tedesco. E a una visione che si può dire rumena del mondo e della poesia – una presenza che ha inciso il Novecento europeo in tutte le sue novità, dada, surrealista, espressionista, della crisi, del “ritorno del religioso”, o semplicemente d’autore: “Nei miei libri non ho ancora scritto una frase in rumeno. Ma si capisce che il rumeno scrive sempre con me perché mi è cresciuto nello sguardo”. A Berlino Helga sarà libera da questi fantasmi. Eccetto che per l’albicocco, che a Berlino non c’è per il clima, ma uno è riuscito a spuntare e crescere rigoglioso, a ridosso dei binari del ponte dello S-Bahn, inattingibile e tuttavia a ogni passaggio liberatorio e persecutorio.
Un’altra condizione peculiare della Nobel sveva di Romania – che Hertha Müller condivide con Ingeborg Bachmann, anch’essa tedesca dei margini, della Carinzia  - è quella di figlia di un padre volontario in una guerra senza onore, non pentito. Che ne determina una fragilità irrimediabile, nell’incertezza che non è agevole liquidare. 
Hertha Müller, dopo il Nobel, ogni tanto compare sui giornali, raramente ma prima era ignorata, e si invita a dare lustro ai festival. Ma non se ne parla. Perché non se ne parla? Se ne occupa la piccola casa editrice Keller di Rovereto, specializzata in testi di qualità, da quando la scrittrice era sconosciuta, ma è ancora una scoperta.
Hertha Müller, Il re s’inchina e uccide, Keller, pp. 95 €12

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