Un giallo kantiano – senza un finale purtroppo, se non la scena vuota delle cose. In forma teatrale: una “rappresentazione”, con un medico, la scienza pratica, una figlia, la scienza logica, una madre che a volte è moglie, arcigna, e un padre. Cui la realtà da qualche tempo svanisce, per la strada, nel lavoro e a casa: la moglie, le voci dell’enciclopedia le parole del vocabolario. Quando non si ribella muta: l’accendino, il telefono, la luce elettrica, i muri di casa. Attraverso quella che è (e non è) una depressione. E dunque, la cosa-in-sé?
La vita come sogno non è una novità. Ma il duo, alla sua maniera lievemente ironica, riesce in una rappresentazione della psicologia di Hillman che allora (1982) dominava, tanto più sorprendente in quanto a quel che si vede involontaria: che tutto è a sua volta rappresentazione, e meglio di tutto la depressione, la porta dell’inferno che sola può aprire alla vita (“La depressione è essenziale al senso della vita. Inumidisce l’anima tropo arida e asciuga quella troppo umida….”, questo genere di cose sosteneva nel 1975 la “Re-visione della psicologia”, che sarà tradotta e divulgata nel 1992 da Adelphi).
Si può sorriderne, insomma – ancora. C’è qui già un nipotino che non dovrebbe esserci, con una madre improbabile e un padre sempre incerto. Ma il duo riesce ancora nell’exploit di una cantata in “originale”, “Das Ding an sich”, al modo di Lola dell’ “Angelo azzurro”.
C. Fruttero – F. Lucentini, La cosa in sé
sabato 16 luglio 2011
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