È come se i referendum, plebiscitari, avessero autorizzato la manomissione senza limiti dei bilanci familiari per l’acqua, ora benedetta oltre che francescana. Archiviato lo straordinario sì all’acqua bene pubblico, complici gli stessi Bersani e Di Pietro che la stessa acqua avevano privatizzato, surreali dibattiti sono in corso tra i fautori dei referendum stessi, presi al laccio della loro demagogia. Di uno di essi, tra Publiacqua, il consorzio di 49 società pubbliche, e alcuni economisti esperti, ospitato dalla “Staffetta Petrolifera”, l’unico benemerito forum su una questione di tanta importanza (il bollettino ne fa la sintesi nel numero del 30 luglio), i termini sono questi.
“Il sentiment dell’opinione pubblica”, argomenta anglicizzando il presidente Pd di Publiacqua, Erasmo D’Angelis, “si è aggrappato al potente brand dell’acqua pubblica (e gratuita) come a un salvagente etico e ideale di fronte a una politica nazionale mai caduta così in basso e ad una società debilitata dalla frammentazione di mondi, blocchi sociali, partiti di massa, sistemi di valori un tempo solidi e compatti”. Una chiamata alle armi, la solita - con e senza l’acqua. Dopodiché “la valanga di sì che doveva «mandare a casa Berlusconi» rischia di mandare a casa i lavoratori. L’acqua, infatti, non è solo emozioni, nuvole e pioggia. È un ciclo industriale e un servizio di pubblica utilità che significa oggi soprattutto fognature, depurazione, disinquinamento. È un lavoro che richiede continuità negli investimenti, scelte e certezze legislative”. Insomma, pagate.
Il business è grande, 147 aziende idriche, il 97 per cento delle quali sono integralmente o a maggioranza pubbliche, ma non abbastanza per le fameliche orde degli amministratori locali. Ora ci vuole un’Autorità nazionale idrica “indipendente e autorevole”. Cioè ben remunerata.
Inoltre, abbiamo votato solo sul 20 per cento dell’acqua che ogni giorno si consuma in Italia. “Un quinto del totale”, dice Publiacqua, “e il resto?” Un 20 per cento si spreca per raffreddare i macchinari delle fabbriche o alimenta il business delle acque minerali, di cui gli italiani sono i più golosi consumatori, dopo gli arabi degli Emirati e i messicani. Un 50 per cento va a usi irrigui, “dove se ne spreca almeno la metà per via di impianti obsoleti”. Il restante 10 per ento va in produzione energetica con l’idroelettrico. Insomma, l’80 per cento dell’acqua rimane ancora in mani private, e ciò è insostenibile, lamenta D’Angelis. Perché i privati non pagano “abbastanza”.
D’Angelis scrive in sostegno della proposta di legge del suo partito. Ma in questi termini: ci vuole un piano d’investimenti per 64 miliardi in 30 anni, per fognature e depuratori, e una tariffa che generi queste risorse. Insomma un aumento subito, consistente. L’abolizione referendaria del principio della remunerazione del
capitale ha, passata la sbornia, lasciato le casse a secco: “Cancellata la remunerazione del capitale investito, è saltata la possibilità di poter accedere a
mutui e finanziamenti bancari o di enti finanziari”. Che fare, allora? Daccapo: “Una possibile leva è quella delle tariffe, che sono tra le più basse in Europa (135 euro l’anno in media) che dovranno essere trasparenti e uniformi sul territorio nazionale”. Cioè trasparentemente aumentate. Minacciosamente anche: “Ancora oggi ci sono 170 mila km di reti idriche e di fognatura da rottamare e altre 50 mila km da posare”.
Seconda bugia: ripubblicizzare, come si è lasciato intendere nel referendum, non è possibile: “A Parigi, la madre di tutte le ripubblicizzazioni, l’acqua è tornata nella gestione municipale a fine concessione e dunque a costo zero per le casse della città e senza ridurre la tariffa (tre volte più alta della nostra). Non è una differenza da poco. Nel caso italiano, infatti, il ritorno al municipio significherebbe un salasso finanziario per i comuni, che hanno l’obbligo di indennizzare i soci industriali”. Da non credere.
La “Staffetta Petrolifera”, che ha voluto risposte certe dai gestori del settore, rileva: “E’ interessante intanto la conferma di D’Angelis che delle 147 aziende idriche solo il 3 per cent sono (erano, n,d.r.) private; un punto che ha confuso la battaglia referendaria convincendo l’opinione pubblica che la privatizzazione è la causa di tutti i mali. Non è così: il sistema è da sempre in mano pubblica e, spiega D’Angelis, «la cartina di tornasole che portò alla luce il disastro idrico fu l’affidamento del servizio da parte degli ATO ai gestori dagli inizi del 2000», quando ci si accorse dello stato pessimo di manutenzione e di tecnologia delle reti”.
Roberto Macrì, economista dell’energia che interloquisce con l’articolo del presidente di Publiacqua, riflette che “la strategia comunicativa dei referendari ha deviato l’attenzione della pubblica opinione dal fatto che la dimensione degli investimenti, la rilevanza dei costi operativi, la complessità progettuale, il livello delle tecnologie e i consumi di energia elettrica richiedono per l’acqua una gestione di tipo prettamente industriale”. Il 40 per cento dei nostri corpi idrici sono inquinati, aggiunge Macrì, e a questa situazione riferisce la stima di 64 miliardi di investimenti fatta da Federutility nel 2010 - con la previsione di un aumento formidabile dell’occupazione nel settore da 160 a 550 mila persone. Ma non tutto è chiaro: “Sono cifre imponenti che perciò meritano una attenta verifica. Sono frutto di un censimento uniforme su tutto il territorio nazionale? Sono dati ricavati da un campione di aziende o da tutte e 147? Le opere si riferiscono solo agli acquedotti cittadini oppure comprendono le infrastrutture di collegamento? In funzione di quali parametri varia in misura così forte la previsione di nuova occupazione?”. C’è imbroglio? C’è: si chiedono soldi per niente.
“Ma soprattutto”, continua Macrì, “è importante verificare se la stima degli investimenti ha tenuto nel debito conto due obiettivi prioritari. Primo: l’eliminazione delle perdite di rete e dei furti d’acqua dalla rete e dai pozzi abusivi. Recuperare 100 mc di acqua al secondo eliminando le perdite di rete costa al massimo 100 euro per la ricerca e altrettanto per le riparazioni: 200 euro dunque a mc. Mentre per fare un pozzo con le stesse potenzialità di produzione e profondo 20 metri può costare fino a 25 mila euro”. L’economista fa l’esempio di un Comune di 30 mila abitanti che ha ridotto una previsione di spesa per aumentare la disponibilità idrica da 2,1 milioni di euro a soli 80 mila euro, quanto costava la ricerca e riduzione delle perdite di rete”. L’acqua come sorgente di corruzione?
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