Al centro del libro, anche figurativamente, il discorso che Répaci, candidato del Fronte Popolare a senatore nel collegio della sua Palmi, tenne in piazza nel 1948. Otto pagine (“il discorso è durato due ore”…) che fanno un prontuario dell’inutilità dell’intellettuale in politica. Pur essendo Leonida il fratello di Mariano Répaci, che il socialismo aveva radicato a Palmi, e il Comune di Palmi dalla liberazione per molti anni socialista, come pure poi il seggio senatoriale, con Giuseppe Carbone prima e poi con Giuseppe Marazzita, Leonida fu bocciato: il discorso, di cui evidentemente andava fiero ancora vent’anni dopo, è un manuale del “come perdere”. O l’inutilità è del Pci, che in Calabria ha avuto minore presenza e più deboli radici che in ogni altra regione d’Italia, compreso il Veneto bigotto. Un libro, anche per questo, di speciale interesse, non locale.
Si riedita nel quadro delle opere di Leonida Répaci questa raccolta a lungo trascurata, di antropologia locale (“un rapporto della civiltà calabrese” la dice nell’introduzione Luigi M.Lombardi Satriani), di un autore trascurato. C’è dunque una civiltà calabrese? La Calabria è molte cose, unita oggi solo dalla disgrazia politica, di una democrazia che non finisce di vomitare infamia – non disseminata peraltro uniformemente. Ma è un libro di rara intelligenza. Di ottima storia peraltro, sorprendente e accurata. Anche se con qualche confusione tra feudo e latifondo, o fedecommesso, legato in gran parte dall’eversione della manomorta (ma la breve storia del latifondo, a p.252, è di rara, ancorché concisa, precisione), e l’assenza, nella dettagliata genealogia, dei normanni e i bizantini, quelli che più hanno “occupato” la regione.
Un’opera che in un altro mondo (un’altra regione, un’altra Italia) avrebbero reso a Répaci un’altra considerazione. Ma questa è la Calabria qual è, rispettosa e indifferente. Una “grande civiltà” in effetti c’è, per magia dell’autore, in mezza pagina (p.9). In mezza pagina imbattibile è anche l’italiano (32-3). Stupefacente, all’interno del cap. II, “La Calabria grande”, la sinossi di storia bruzia. Con una sintesi che non si saprebbe contraddire, seppure oggi remota e anzi avulsa: “La civiltà della Calabria, quella per la quale è immortale, si fonda sulla prima categoria di interessi: quelli spirituali”. Una storia meravigliosa è quella di Catanzaro, anch’essa in mezza pagina (281). Per il resto l’intento celebrativo, e in lunghi pezzi autocelebrativo, non soverchia mai quello critico.
Alcune cose, che Répaci non mette in rilievo, giustificano da sole il titolo. In queste trecento pagine, nell’arco di venticinque anni, il solo evento di rilievo in Calabria è la visita di Fanfani. Crotone, che Répaci vedeva land of opportunity per eccellenza, vede ridotta dopo quarant’anni la “grandiosa prospettiva del mercato orientale, oltre che dell’industrializzazione”, a punto d’approdo per i barconi degli immigrati orientali. La vendita impossibile di un uliveto a Castellace, sintetizzata in un breve dialogo del 1963, testimoniabile per esperienza diretta, si confronta, dopo quarant’anni, col sequestro o la confisca di tutto l’agro di quel paesino di ex galeotti: la proprietà privata non difesa è oggi confidata a Libera, con pattuglie blindate di carabinieri al seguito, e questa è la lotta alla mafia.
C’è anche lo scrittore, sotto il polemista. Specialista, sotto l’ambizioso programma della saga familiare, di racconti brevissimi, fulminanti. La morte del fratello Peppe. La lotta suicida dello squalo con lo spada. O il perito Bussola travolto dalla scienza – esemplare della “coglionella”, che sembra l’espressione tipica dello spiritaccio locale.
C’è la parsimonia che non è una virtù,l’accontentarsi di niente, la sordidezza dell’abitazione: “Su questa capacità di adattamento, sull’abitudine a non avere niente, è stata consolidata la servitù sociale”. Che è vero e non lo è. Non lo è perché la servitù sociale in Calabria è sempre stata contenuta e contestata, al confronto col resto d’Europa – il confronto col resto d’Italia non è altrettanto macroscopicamente favorevole perché in Italia , col papa e col vescovo, la servitù sociale non è ma stata molta (bisognerà prima o poi uscire dai calchi interpretativi e riprendere la storia). Tanta insofferenza non toglie però che il calabrese viva oggi - quando Répaci scrive e ancora dopo cinquant’anni - come se fosse in regime di sottomissione, quale la descrive Répaci, perché non ha capito la democrazia, i meccanismi che ne fanno un’arma di liberazione: “Quella capacità di adattamento significa comuni senza strade, senz’acqua, senza luce, senza scuole, senza ospedali, senza gabinetti scientifici, senza teatri, senza cinema, senza biblioteche, senza asili infantili, senza cimitero”. Che sembra un’esagerazione ma è la realtà di quasi tutti i paesi calabresi. Che, se hanno ora tutti il cimitero, hanno anche case troppi piccole o troppo grandi, e debiti.
Dell’eversione della manomorta, a “partire dalla riforma antifeudale di Pietro Colletta e Pasquale Scura”, Répaci individua peraltro i germi infettivi. In cambio di poco o nulla, e incendiando gli archivi per eliminarne le prove, milioni di ettari sono stati passati a borghesie ingorde e inutili. Con l’appropriazione successiva anche delle terre comunali, assegnate dalle riforme ai comuni per gli usi civici (tutti gli usi civici, sia che i comuni abbiano rifiutate le assegnazioni, sia che le abbiano accettate).
Répaci si vuole calabrese a parte intiera, senza la riserva cui il suo ruolo in Italia e la sua formazione cosmopolita potrebbero indurlo, eccessivo sempre, partecipe, sia pure da antropologo, più che critico. Per esempio nel gusto insopprimibile della beffa, ai danni dei folli di paese, la “coglionella” degli “innocenti”. Che qui si vendicano: nell’episodio celebrato dell’agrimensore Bussola, che invecchia immaginandosi scienziato, il presidente americano contemporaneo di Gentile, Mussolini e Vittorio Emanuele III è Truman, e la vicenda di Bussola farlocco si trascina per alcuni decenni, una specie di fascismo eterno. Molto calabrese anche l’autocelebrazione, la discrezione e l’indiscrezione sono ugualmente autoctoni , che qui abbonda - sul declivio, purtroppo, piccolo borghese.
“C’è qualche pagina di troppo”, nota Luigi M. Lombardi Satriani nella presentazione, per esempio gli elogi di Sansone e Debenedetti allo stesso Répaci. Ma anche questo è un segno dell’isolamento dell’autore nella sua “terra amara”, di una sorta di snobismo proletario nei confronti di qualsiasi autorità e quindi anche del genio, malgrado il professo riconoscimento delle qualità morali e intellettuali, che è forse l’indifferenza del bisogno, della vita dura, o più probabilmente di un’anarchia distruttiva, di un individualismo che è invidia sociale.
È, come tutto in Répaci, un libro affrettato: farcito, anche poco curato, con alcuni effetti sgradevoli. Questo si segnala per il settarismo, tanto forte da condizionare un animo pure irruento e tollerante quale Répaci era. Fa la cronaca minuta nel 1963 a Cosenza di un convegno per creare l’università, con profluvio di nomi, avendo cura di tacere quello di Giacomo Mancini, che l’università della Calabria progettò e creò – a Mancini potrà liberamente tributare grandi elogi in “La Pietrosa racconta”, quando “al teatro Sciarrone\ Giacomo Mancini ministro\ del governo Aldo Moro\ dà la grande notizia\ che sarà realizzata\ la Casa della cultura\ da me suggeritagli”, per i settant’anni dello scrittore. La faziosità è anch’essa molto calabrese.
Leonida Répaci, Calabria grande amara, Rubbettino, pp. 347 € 15
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