Le origini del sionismo sono controverse. Non è azzardato farle risalire a Mordechai Manule Noah, ebreo d’origine portoghese, console degli Stati Uniti a Tunisi, che nel 1825 comprò il Grand Island nel Niagara per farne una colonia israelita con nome di Ararat. Un fallimento, cui vent’anni più tardi Noah fece seguire un appello all’emigrazione in Palestina. Quel che è certo è che il sionismo non è tutto askenazita o tedesco, quale si vuole l’ultima fase della storia dell’ebraismo. Nella stessa chiave semiseria va anche ricordato che la questione della dispersione delle tribù d’Israele, con tappe dall’Inghilterra al Giappone, passando per Cochin nell’India meridionale, e per Shangai, nella nuova Grande Cina, finisce tra gli Indiani d’America, per l’autorità del “Manoscritto ritrovato” inventato dal pastore presbiteriano Solomon Spalding “Mormon”, con la “Bibbia di Oahspe” e un “Vangelo Aquariano” – anticipava l’Età dell’Acquario?
Israele naturalmente è un fatto, oggi anche drammatico, per cui si può scherzare ma non troppo. E tuttavia la chiave a ogni purezza, tanto più del sangue, la “sangre limpia” che a lungo fu opposta agli ebrei (mediata dall’Inquisizione in Spagna dagli stessi ebrei, il mito del sangue), non può essere seria. Anche in Israele, poiché per avervi cittadinanza bisogna essere “ebreo”, fatto non facile da accertare, e un “ebreo\a non può sposare una non-ebrea\o”. Essere ebreo in teoria si risolve nascendo da madre ebrea – per il vecchio principio “mater sempre certa”, per che altro motivo?, molto patriarcale. Che però non basta: si sono dovute fare eccezioni per grandi sionisti che avevano mogli “ariane”.
Shlomo Sand, storico contemporaneista all’università di Tel Aviv, ci ha provato tre anni fa in entrambe le chiavi, con questa “invenzione” del popolo ebreo molto seriosa, in cinque parti: la fabbrica ottocentesca delle nazioni, la mitostoria, l’invenzione dell’esilio, i luoghi (e le epoche) del silenzio, e la “distinzione”, o la politica identitaria in Israele. Facendoli precedere da narrazioni esemplari che da sole, il riso mescolando alle lacrime, valgono la trattazione: una diecina di casi in cui le stesse leggi israeliane rendono impossibile la formazione di un popolo israeliano, nonché ebraico. A conclusione delle quali confessa: “Gli echi dell’ironia e della tristezza, inestricabilmente mescolati, costituiscono la piccola musica di fondo di un racconto critico che analizzi le fonti storiche e la prassi della politica delle identità in Israele”. Senza nessun effetto, a quel che sembra: il libro, pure molto letto in Israele, in Francia e altrove, non ha creato niente in patria dopo lo scandalo – in Italia nemmeno questo: è grande storia, troppo difficile? Un altro aneddoto significativo viene dato alla fine del libro: quello di Padre Daniel, al secolo Oswald Rufeisen, un ebreo polacco molto attivo nella Resistenza contro Hitler, specie in favore degli ebrei perseguitati, che non poté diventare Giusto d’Israele perché intanto era diventato frate carmelitano, né poté avere la cittadinanza israeliana benché si fosse spogliato di quella polacca, la Corte costituzionale gliela negò, 4 a 1. Questo nel 1962, ma la Corte non ha poi mutato parere.
Esserci sempre stati
“Ogni israeliano sa, senza ombra di dubbio, che il popolo ebraico esiste da quando ha ricevuto la Torah nel Sinai, e che lui stesso ne è il discendente diretto esclusivo (con l’eccezione delle dieci tribù la cui localizzazione non è ancora completata). Ognuno è convinto che questo popolo è uscito dall’Egitto e s’è fissato in Israele, «terra promessa» che ha conquistato”, su cui ha fondato il regno glorioso di Davide e Salomone, e quelli di Giudea e Israele, “dopo aver respinto la cattiva influenza dei greci”, e per due volte ha conosciuto l’esilio, dopo la distruzione del Primo Tempio, nel 500 a.C., e dopo la distruzione del Secondo Tempio, nel 70. È una storia vera?
Nella dispersione la storia è rimasta vuota. Solo a fine Ottocento”le condizioni divennero mature” per “svegliare questo vecchio popolo dal torpore”. Prima la storia non c’era. E dopo, malgrado l’avvio di studi propriamente ebraici, non si è arricchita: è “monolitica e etnonazionale”, assertiva e politica prima che critica. Sulla convinzione che “senza il terribile sterminio perpetrato da Hitler, «Eretz Israel» si sarebbe rapidamente popolato” di tutti gli ebrei del mondo, che non aspettavano che questo da un millennio o due. Queste le motivazioni di Sand, questo suo ampio lavoro una rassegna critica della storiografia ebraico-israeliana, in polemica con i “produttori di memoria isareliana”.
L’opera non è isolata in Israele, nel quadro di una “controstoria” che si sta liberando negli ultimi vent’anni. Fondata sulla revisione del nazionalismo, che Sand fa avviare dalle opere di Benedict Anderson, “Comunità immaginate”, e Ernest Gellner “Nazioni e nazionalismo” (questa non tradotta in italiano), entrambe del 1983. Questo di Sand è il primo libro “revisionista” tradotto, sulla scia del suo successo di pubblico in Francia. Ma non è un libro facile.
È un atto d’accusa, alla fine, di una storiografia carente. Talvolta solo biblica. Talvolta abiblica – “la Bibbia fu «restituita» a una parte degli ebrei istruiti in Europa” nella seconda metà dell’Ottocento. Quasi tutta immaginaria. Il regno asmoneo di Giudea, da cui si fa partire tanta storia, non aveva un’unica lingua, e del resto nessuno sapeva leggere o scrivere. Il giudaismo, conclude Sand, “è stato soltanto una religione accattivante” (p. 54): “Fino all’era moderna i «popoli», come i regni, non hanno cessato di apparire e sparire. Le comunità religiose, invece, hanno generalmente beneficiato di un’esistenza di «lunga durata»” (p. 73). Se “gli ebrei fossero uniti e distinti per i «legami di sangue»”, si parla tanto di “sangue ebreo”, di “gene ebreo”, Hitler avrebbe vinto – avrebbe vinto in Israele.
Il popolo ebraico, il popolo diverso, venne con Heinrich (Hirsch) Graetz, con una “Storia degli ebrei” (tradotta in francese e inglese, ma non in ebraico) in più volumi, scaglionati nel tempo, dal 1853 al 1876, con una caricata accentuazione negli anni delle radici e della diversità-superiorità. “Il mito cristiano popolare del popolo esiliato peccatore, ritrascritto sul «disco duro» del giudaismo rabbinico nel corso dei primi secoli dell’era cristiana, si guadagnò allora uno scrittore che cominciò a tradurlo in narrazione prenazionale ebraica”, nota Sand. Il canone sarà quello di Graetz. Che il mito costituente trovò nella Bibbia, fino ad allora poco conosciuta in ambito ebraico, e più sulle gesta, le armi e gli amori del canone cavalleresco che dell’esegesi ebraico-cristiana. Moses Hess, “il primo comunista di Germania”, affiancò Graetz da Parigi, dov’era emigrato politico, con un “Roma e Gerusalemme” che introdusse la diversità biologica, il nazionalismo come razza.
Sulla specificità Graetz fu contrastato duramente da Treitschke – con tale foga che il grande storico prese una deriva sempre più antisemita. Ma Graetz persistette: approfondì e fissò il canone della tribù-razza, in analogia col Volkstum tedesco, che allora diventava l’inafferrabile ma esclusivo segno nazionale. In questa polemica, per inciso, si può rilevare come l’antisemitismo di Treitschke s’inquadri nella temperie culturale dell’epoca. Che volle un Kulturkampf anche contro il papa, i gesuiti, e i cattolici tutti. E in genere nel carattere arcigno (bellicoso, esclusivo, superiore), che l’unificazione ebbe in Germania, e quindi la Germania unita. Molto evidente al raffronto col Risorgimento, che invece fu una festa per tutta l’Europa (volontario, giovanile, libertario).
Dopo Graetz il russo Dubnov propone la rinascita nazionale ebraica in chiave razziale, seppure laica e non religiosa, da storico e non da mitografo, nei primi decenni del Novecento. Il popolo d’Israele diventa sempre più selettivo: con Abramo Dubnov separa gli ebrei dai figli di Cham, nomadi, con Isacco e Giacobbe separa il “popolo d’Israele” dagli altri ebrei. Inoltre, sempre su basi scientifiche, s’ingegna di fare d’Israele la storia più antica del mondo, la storia con più continuità.
Curiosamente Sand omette Heinrich Berl, che, per esempio in “Ebraismo nella musica”, legge la Bibbia come mito naturale, l’essenza dell’ebraismo, logica ed etica, imputando invece al rabbinismo e al talmudismo. E Theodor Lessing, l’autore dell’ “Odio-di-sé ebraico”, quindi a suo modo un sionista, che pure ha un’idea non da buttare della Bibbia, di cui rintraccia in “Europa e Asia (tramonto della terra nello spirito)” le componenti pagane, e ha una concezione della religione distinta per principio dall’etica o politica. Buber è citato in breve, per farne “un volkista audace e coerente”, e “uno dei principali autori della rappresentazione del popolo ebraico come «comunità di sangue»”. Senza alcun cenno alla sua lettura del profetismo come fenomeno etico-spirituale e non religioso, che apre notevoli prospettive storiografiche, o alla sua idea molto contemporanea e anti-fondamentalista della religione come dialogo o apertura (“rivolgere la parola e riceverla”).
La ricostruzione è completata da Dinur, uno storico israeliano dalla “personalità dominante”, che fu pure ministro dell’Istruzione, nel 1951, e impose la sua metodologia, “la strategia positivista di creazione della «veracità» storica”. Con lui la “nazionalizzazione della Bibbia” è completata. Sotto l’ala di Ben Gurion, il padre d’Israele. Nel 1981 il libro di memorie di Dayan sarà “Vivere con la Bibbia”.
La verità della pietra
È un momento di picco, che avvia però una serie di delusioni. Gli scavi a Gerusalemme “liberata” e negli altri nei territori occupati nel 1967 non recano traccia degli splendori vantati dalla Bibbia, per esempio coi regni di Davide e Salomone – Dayan stesso ne fu deluso, grande cultore della memoria archeologica, della verità delle pietre. L’archeologia e la (poca) storia, riconsiderata, dicono che ci fu una grande regno d’Israele, che arrivò fino a Damasco, e forse un piccolo regno di Giudea, politeista, che venerava Jahvé come uno degli dei, benché il più importante, tipo Zeus o Giove. Detto in breve: “Gli autori della Torah, monoteisti giudei, detestavano i sovrani d’Israele, ma non erano meno invidiosi della loro potenza leggendaria e del loro splendore” e, pur denunciandone “i peccati religiosi e morali”, adottarono “senza esitazione il nome prestigioso d’Israele”.
Il capitolo centrale è fattuale, riporta la storia all’evidenza. Nessun dubbio che l’esilio sia stato relativo e non imposto: “L’esilio senza espulsione, una storia in zona torbida” – uno storico cristiano direbbe “senza martirio”, non commiserabile. E che l’ebraismo sia stato missionario, dal proselitismo anche spiccio e ruvido, e non esclusivo o chiuso. Entrambi i fatti si modulano nella storia, si può aggiungere, secondo lo schema dell’inclusione\esclusione (comando, aristocrazia, essoterismo), che è sociale e politico, non etnico.
Il sionismo ha avuto varie fasi, e due temi costanti: il proselitismo-esclusivismo, e l’esilio
Il proselitismo cessa con l’era cristiana, ma per il fallimento degli ultimi due tentativi d’imporlo con la forza, la rivolta armata delle comunità ebraiche del Nord Africa, 115-117 d.C., e la rivolta di Bar Kokhba, 131-35 – che da sola vanifica la presunta espulsione del 70 a opera dell’imperatore Tito.
L’esilio, atteso che non fu forzato, né con i romani dell’imperatore Tito né dopo, consiste nel fatto che molti ebrei si fecero cristiani, a Gerusalemme e altrove. Era inevitabile ed è avvenuto. E cinque-sei secoli più tardi molti altri ebrei, a Gerusalemme e nelle campagne, si fecero mussulmani. La diaspora è un fenomeno di conversioni d massa, non forzate. È con l’islam che ogni segno di ebraismo scompare da Gerusalemme, senza che ci siano state persecuzioni.
La conseguenza è che molti abitanti della Palestina sono discendenti dei giudei, del vecchio regno. di Giuda. Il fatto fu appropriato dalla corrente palestinese del sionismo, in particolare da Ben Gurion e da Ben Zvi, i primi due presidenti del futuro Israele, nel 1918, quando nel corso di un soggiorno a New York ne codificarono le persistenze. Sulla traccia degli studi, nell’ultimo ventennio dll’Ottocento, di Israel Belkind, uno dei leader dei Biluim, il primo gruppo di sionisti, e successivamente da Ber Borokhov, capofila e teorico della sinistra sionista. L’appropriazione dei palestinesi come vecchi ebrei agricoltori cesserà negli anni 1930, col sollevamento e il massacro di Hebron, e con la Grande Rivolta araba. Prevalse allora un quadro della Palestina come di “un paese praticamente vuoto”, occupato nell’Ottocento da masse di diseredati arabi. Mentre ritorna in parallelo l’Esilio, attribuito questa volta all’invasione araba del VII secolo, e la Palestina diventa “una terra senza popolo per un popolo senza terra”.
Le guardie giurate della memoria“
L’invenzione del passato ebraico” non è esercizio nuovo, Sand è stato preceduto da una ventina d’anni da vari altri storici che cita, israeliani e americani. Il libro s’inquadra nella “decostruzione” degli storioni nazionali, sul tipo delle storie familiari. Per l’impossibilità di essere razzisti. Perché di questo in fondo si tratta: il disagio di vivere in uno Stato a fondamento etnico e perfino biologico. Per una via d’uscita, se non una soluzione, in cui Israele possa incontrare al meglio le sue stessi pulsioni “nazionali”, bibliche o abibliche (di studi, di impegno, di mentalità, di realizzazioni), che non possono essere quelle dell’oppressione.
È un storia lunga, ma leggibile a ogni pagina,lo storico ha diversi registri, appassionanti tutti. Una curiosità fra le tante. Molto interessato alla “«immunizzazione» civica eccezionale del nazionalismo italiano, a fronte degli “etnicismi” (razzismi) più o meno violenti oltralpe, ne trova le cause “nel peso enorme del papato e dell’universalismo cattolico”, che come si sa sono il fondamento della democrazia moderna, e nel mito della Repubblica dell’antica Roma. Ma anche nella “differenza marcata tra gli italiani del Nord e quelli del Sud”. Nell’impossibilità cioè di un razzismo.
Sand ricostituisce i fatti indirettamente, analizzando la storiografia sionista a caccia in particolare delle due mitografie, dell’etnia e dell’esilio. Non fa un libro di lettura ma di analisi – di riletture. Non si può fargliene una colpa, l’argomento è delicato, poiché scava i fondamenti “culturali” (cultuali?) su cu Israele, lo Stato ebraico moderno, ha scelto di impiantarsi. Lasciando al rabbinato, che peraltro non è monolitico, la definizione e la decisione sulla nazionalità.
Ampia è la ricostruzione della Khazaria, da tutte le fonti conosciute. E in generale dei regni o nazioni in cui, nella sola era cristiana, gli ebrei si sono di volta in volta riconosciuti. Ma non è un libro di ricerca, è un storia delle storie: Sand opera su tutte le storie dell’Otto-Novecento che hanno fatto l’opinione sionista e israeliana, e le “raddrizza”, allo scopo di terminare l’impossibile isolamento (unicità, esclusione) o imperialismo di Israele. E tuttavia finisce per presentare una storia manomessa in punti cruciali, perfino quella documentata, sempre, con intenzione. Non a un fine dichiarato o comprensibile, ma volutamente deviante. Risuscitando l’eco della duplice identità, o lealtà, che poi sarebbe l’opportunismo razziale, se non il “complotto”. Della manomissione insidiosa della Auctoritas, o sovranità, che è l’asse, se non il bene supremo, di una nazione.
È l’esito, paradossale, di una comunità di popolo (etnica, religiosa, le due insieme) colta, che coltiva la memoria conservandone i documenti, in tutti i suoi “regni” successivi, specialmente dopo quello di Giudea e l’avvento del cristianesimo, l’Arabia Felix o Hymiar (Yemen), Etiopia, Berberia, Granada. E questo non per un disegno politico ma per lo stesso culto della memoria: è come se la storia non governata (non politica) fosse intimamente corrotta, la verità velando più che rivelando. Che non può essere: questa storia si deve assestare. Il libro di Sand, benché esaustivo e argomentato, resta come una vigorosa domanda in tale direzione.
Ripensare il nazionalismo si è fatto, ma è come l’inizio di uno scavo, per ora nella sabbia. Benedict Anderson, “Comunità immaginate”, vede l’inizio della nazione nell’avvento della stampa e del capitalismo, come forma di organizzazione della società, che conformarono le lingue nazionali, per l’uniformità che essi imposero, eliminando la distinzione tra ricchi e colti e masse, col linguaggio burocratico e le formule della comunicazione, e con la “letteratura”: saghe, drammi, romanzi, gazzette furono i primi agenti dell’identità nazionale. Poi consolidata dalle carte geografiche, dai musei, e dalle storie. Anderson ci arriva anche con la teoria dei creoli – Senghor diceva del “meticciato”: i pionieri della coscienza nazionale moderna sono stati i creoli, le élites bilingui, biculturali.
Gellner, “Nazioni e nazionalismo”, si apre con una incontestabile duplice premessa: “1. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se condividono la stessa cultura quando la cultura a sua volta significa un sistema di idee, di segni, di associazioni e di modi di comportamento e di comunicazione. 2. Due uomini sono della stessa nazione se e soltanto se si riconoscono come appartenenti alla stessa nazione. In altri termini, sono gli uomini che fanno le nazioni”.
Il nazionalismo è ancora tutto da rivedere, specie per le componenti “bibliche”, predestinazione, elezione, vocazione, e il mito del sangue. Ma mitologie e storiografie etnocentriste “vengono da lontano”, tra “cristalli della storia”, “trapianti” e “guardie giurate della memoria”, modulando la memoria collettiva. E non si può fare colpa a Israele, non da storici delle idee, di un nazionalismo fondato sulla Bibbia, benché nell’interpretazione rabbinica, di rabbini non concordi.
La “buona coscienza”, benché più spesso colonizzatrice, imperialista, sommariamente aggressiva, per secoli si è fondata sulla Bibbia. Soprattutto le conquiste protestante e puritana, in Europa e in Nord America – le missioni cattoliche si accontentavano del Vangelo. Con il loro Dio di giustizia eccetera . Il sionismo è tardo adattamento a un canone consolidato. Curiosamente, si dovrebbe far colpa a Israele di avere fatto suo indirettamente quel cristianesimo che invece da tempo elegge a suo Grande Nemico.
La nazione è una sedimentazione, lenta, multistrato. Ma l’unità è un fatto soggettivo. Politico. Quanto alla stampa e all’organizzazione del lavoro, e quindi della società, il loro ruolo è senz’altro incisivo. Ma non originario: l’inizio è un fatto linguistico e culturale, normativo (religioso, politico).
Primati e Terzi mondi
L’aneddotica su cosa non va nel nazionalismo israeliano è infinita. Sand ricorda di passata che nel 1972 Golda Meir, allora primo ministro, si spinse ad apparentare la politica di integrazione nei paesi dell’Est Europa all’Olocausto: i matrimoni misti, specie di ebrei con non ebree, era come mandare gli ebrei al campo di sterminio. O l’affareTamarin. Di un professore alla facoltà di Pedagogia di Tel Aviv, immigrato dalla Jugoslavia nel 1949, che nel 1972 chiese lo statuto d cittadino israeliano e non ebreo, connotazione che, diceva, è “razziale” e “religiosa”. Una richiesta rigettata all’unanimità dai giudici della Corte Suprema. Più in generale, la rassegna che Sand propone dei pareri in materia di cittadinanza delle migliori menti giuridiche del paese è deprimente. A conferma che il razzismo è sempre un fatto d’ignoranza: approssimazioni, sofismi, tautologie. Ma lo storico non si nasconde, e affronta nei paragrafi conclusivi il nodo della questione, che è politico: che Stato per Israele?
Il dibattito sulle “indipendenze”, al tempo della decolonizzazione e del Terzo mondo antimperialista, o del nazionalismo antinazionalista, sulla traccia dell’ “Orfeo nero” di Sartre e Senghor, del razzismo antirazzista) – tutto peraltro “creolo”, di élites biculturali, meticcie – avrebbe aiutato. Non si può negare a Israele il “diritto” all’esistenza, su qualsiasi base. Che non risolve e anzi continua ad aggrovigliare il problema Palestina, ma è un pilastro ineliminabile.
Un altro tema di aiuto avrebbe potuto essere quello dei primati nazionali, di cui forse nessuna nazione europea si privò a metà dell’Ottocento: era un genere in voga. Israele non è un fatto isolato, è il tardo epigono della storia dei primati nazionali che ha, bene o male, fatto l’Europa nell’Ottocento, e ancora nella prima metà del Novecento. Nulla di diverso Graetz sosteneva, a quanto se ne legge in Sand, bisogna dire, da quanto Gioberti sosteneva degli italiani, e i suoi analoghi delle altre storie europee – sulle orme, che Sand ricorda in mezza riga, di Herder e Fichte, e più in generale del romanticismo. Il nucleo originario e prevalente del sionismo è anzi ben “tedesco”, il mondo dei primati ha mediato dalla loro versione più infetta. Sono trattazioni esaltate, anche in modo scoperto, di tipo “risorgimentale” se non del nazionalismo antinazionalista, sulla traccia anch’esse di quello che Sartre chiamerà il giusto razzismo antirazzista.
Una revisione s’impone di questo Ottocento che ancora langue. Ma un primo risultato nella revisione storica c’è: il vero nemico dei “primati” che non possono essere imperiali, non per altre minoranze determinate, non è l’offesa alla verità della storia ma a se stessi, l’autolesionismo, poiché invariabilmente in vario modo la pretesa è dannosa. La presentazione dell’edizione italiana conclude in breve che “gli ebrei discendono da una pletora di convertiti, provenienti dalle più varie nazioni del Medioriente e dell’Europa orientale”, e questo è, i fatti non si negano.
Shlomo Sand, L’invenzione del popolo ebraico, Rizzoli, pp. 536,€ 21,50
martedì 9 agosto 2011
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