Giuseppe Leuzzi
Briganti
Dopo 150 anni gli archivi della lotta al brigantaggio non sono ancora pubblici. Alla richiesta di aprirli il presidente Napolitano non ha nemmeno risposto. A Pontelandolfo nel beneventano, dove alcune centinaia di persone inermi furono trucidate nel 1861 dai bersaglieri, si è detto che lo Stato alla vigilia di Ferragosto si è scusato. Invece non è vero: non Napolitano né alcun esponente del governo vi si è recato. Che dirne?
I briganti erano più d’uno. C’è la categoria creata dai legittimisti, soprattutto dai bonapartisti, contro gli insorti in Calabria dal 1806 al 1812, e dai legittimisti unitari contro gli insorti del 1861 in Campania e in Calabria – i tedeschi hanno rilanciato la categoria nel Centro Italia nel 1943-44, ma non ha attecchito. Custine può stigmatizzare con durezza, nel 1812, a Napoli, sotto Murat, i metodi feroci del generale bonapartista Manhès – che ne menerà vanto – contro i “briganti” calabresi, gli storici italiani se ne esimono. E ci sono i briganti veri e propri, che taglieggiano le periferie e le campagne. Molti di essi sono però disertori, alla leva obbligatoria che l’unità aveva imposto: William Moens, rapito a scopo di riscatto nel salernitano nel 1864, dice i suoi rapitori in gran parte disertori. E tutti mostra psicologicamente fragili, eccetto il capobanda, sempre in cerca di giustificazioni e conforto da parte dello stesso rapito. Regrediti a una sorta di umanità animale.
La caccia ai briganti di passo, feroce, era anche mal condotta. Non c’era protezione per i viaggiatori prima, spiega Moens, c’era approssimazione durante il sequestro. Il rapito soffre soprattutto la pioggia, e gli accerchiamenti della Forza pubblica. La caccia al brigante si fa con strepito e confusione: Moens ricorda per contrasto “i silenziosi appostamenti delle truppe inglesi, così diversi dalla confusione sotto di noi, dove ogni soldato cercava di urlare più forte degli altri”.
Le recriminazioni sull’unità sono naturalmente sterili. Ma un po’ di verità perché guasterebbe? E perché non si può fare dopo centocinquanta anni la vera storia del brigantaggio?
Antimafia
Répaci, uomo del Pci tutto d’un pezzo, ha in “Calabria grande e amara” un breve dialogo sull’impossibilità nel 1963 di disporre liberamente di un terreno a Castellace, nell’agro di Oppido Mamertina. Tutto vero, per esperienza diretta: la vendita, l’ultima che si è fatta liberamente, ha visto coinvolta la mia famiglia, che per questo ci ha rimesso tutto.
Oggi l’agro di Castellace è quasi tutto sequestrato o confiscato. Così almeno dicono i giornali, anche se gli uliveti sono tenuti in grande spolvero. Un paio di uliveti però effettivamente sono dati in gestione a Libera: si vede in stagione dai carabinieri corazzati ogni mattina al seguito dei lavoranti. Ma anche se così fosse, se i terreni, tutti in mano di condannati per mafia, fossero confiscati e assegnati a Libera, il kolchoz blindato è buona lotta alla mafia, dopo aver liquidato la proprietà privata?
Ci fu fino all’unità una polizia privata in Sicilia, come a Londra e a Parigi nel Settecento, all’inizio della polizia moderna. Di essa si fa solitamente la radice della futura mafia. La prima guida turistica post-unitaria, “A Handbook for travellers in Sicily”, dell’editore londinese Murray, pubblicata nel 1864, scritta dall’archeologo George Dennis, che aveva soggiornato nell’isola a quattro riprese nei precedenti quindici anni, dice invece di no. Dennis esordisce riconoscendo al governo borbonico “almeno il merito di mantenere le comunicazioni attraverso le sue province sicure come quelle dell’Europa del Nord”. E spiega come: “Sul continente ciò era ottenuto attribuendo la responsabilità della sicurezza delle strade alle municipalità. In Sicilia invece il servizio era svolto da una polizia rurale chiamata «Compagni d’arme»”. Un “corpo di polizia rurale costituito nel 1812, quando gli inglesi occupavano l’isola”. I ventiquattro distretti di polizia erano presidiati ognuno da uno squadrone a cavallo. Il capitano era di nomina governativa, gli uomini scelti da lui. La paga del capitano, del tenente e degli agenti era commisurata all’efficienza. La cifra era fissa, ma una parte veniva pagata a fine anno, se nessuna rapina era stata “commessa sulle strade del loro territorio tra l’alba e il tramonto”. Il capitano doveva inoltre anticipare una garanzia per duemila onze (mille sterline).
“L’Italia è un paese agricolo”, notava l’archeologo. E con la stessa serenità delineava già le future mafia e ‘ndrangheta – questa un fenomeno, si può attestare per esperienza diretta, degli ultimi cinquant’anni, e del tutto in linea con le previsioni di Dennis: “Finché ci si preoccupa solo della tranquillità delle grandi città e la sicurezza dei produttori agricoli resta una considerazione secondaria, l’Italia si troverà sempre più in difficoltà, e dovrà continuare a indebitarsi per pagare interessi a loro volta sempre crescenti”.
Lega
Molto interessato alla “«immunizzazione» civica eccezionale in Italia, a fronte degli “etnicismi” (razzismi) più o meno violenti oltralpe, lo storico israeliano Shlomo Sand (“Come il popolo ebreo fu inventato”) ne trova le cause “nel peso enorme del papato e dell’universalismo cattolico”, che come si sa sono il fondamento della democrazia moderna, e nel mito della Repubblica dell’antica Roma. Ma anche nella “differenza marcata tra gli italiani del Nord e quelli del Sud”. Nell’impossibilità cioè di un razzismo. Perché ci sono longobardi al Sud, sassoni e normanni, e bizantini a Lucca, Ravenna e Venezia, Lombardie in Sicilia, Piemonti in Calabria.
La democrazia è come si sa figlia del diritto canonico, è la sua applicazione alla società, oggi alla nazione. Il romanzo d Astolfo “La morte è giovane”, in vi di pubblicazione, ne fa una sintesi (p. 565):
“La logica, la metafisica e la stessa ontologia, ammesso che non sia metafisica, sono passate non indenni dalla scolastica. Il nostro strumentario politico, sia i concetti che le istituzioni, il corpo dei funzionari dello Stato e lo Stato stesso, la rappresentanza, la maggioranza, il diritto registrato nei codici, è maturato dentro la chiesa. Come la stessa democrazia: la “volontà del popolo” è ecclesiastica, di preti, vescovi, sinodi, conclavi. E il partito: per il partito come per la chiesa “la fede nell’unità del fine risulta più forte della realtà”, riconosce Spengler, “e, come sempre in Occidente, si fonda su un libro”.
“L’Europa è medievale e papalina – che non sembra un complimento e invece lo è. Siamo nel Medio Evo: la banca, la nota di credito, la cambiale, il proletariato, l’università, il comune, l’ospedale, perfino il turismo politico, a Roma, Gerusalemme e al santo Jago da Compostela, la guerra giusta e quella di liberazione, col diritto di tirannicidio e d’anarchia, dai circoncellioni donatisti dell’Africa agli svevi di Federico II. Il Duecento è Rinascimento pieno, ben prima dell’Umanesimo e la Riforma. In politica: i Comuni, le repubbliche marinare, la Magna Charta. In economia: il fiorino convertibile, le libere fiere, la partita doppia. Nella scuola, la tecnica, la scienza, tra i mussulmani di Spagna e alla Sorbona. Eco lo dice pieno di brigatisti, in forma di eretici. E già allora, se si capiva il cielo, non si capiva più la terra. I tre ordini o Stati in Francia prima della Rivoluzione rimontano a canoni ecclesiastici dell’epoca carolingia”.
leuzzi@antiit.eu
domenica 21 agosto 2011
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento