Il sesso curiosamente come malattia, come fascismo. E come liberazione. Non è una novità anche se il romanzo è del 1956: il fascismo piace grasso. Il caso più famoso sarà “Eros e Priapo” di Gadda, tardo esercizio del 1967. Allora già senza processo, che invece ci fu subito per Répaci. Perché negli anni 1950 usava così in Italia, ma soprattutto perché qui, con più verità, la liberazione è dalla famiglia. Che muore e sempre si ricostituisce. E sempre con ali di piombo, volando bassa, sovrastante, che sia naturale, acquisita, allargata, informale, sempre intenta a distruggere i sentimenti e ogni spazio di libertà.
Il fascismo c’è, con la protervia e le delazioni – c’è anche un personaggio ebreo “per un ottavo”. E c’è, a ogni pagina, il deliquio sessuale di tanta letteratura posteriore – al suo sesso un personaggio ha già “imparato a parlargli”, prima di Moravia. A opera dei soggetti più imprevedibili, per primo lo stesso Commendatore – il sesso non è la cosa più democratica? Ma non è una storia di letto “torrida”, come userà dire, di pornografia. Il romanzo è di un cupo personaggio senza amore – senza sesso – e una magistrale storia di piccola borghesia, che i languori mescolava(va) ai doveri, all’“etica” delle apparenze.
Il buono è Commendatore, protagonista pusillanime, che vive tenendo il conto delle sgarberie della moglie e della famiglia della moglie, anche dopo morta. Una famiglia che al Commendatore tocca mantenere e con la quale deve convivere. Con un assurdo cahier de doléances che egli alimenta fin da subito col matrimonio, e anche prima. Nel mentre che salta in tutti i letti. Passivo anche dopo i molteplici delitti di cui è vittima, e carnefice involontario.
Leonida Répaci, Il deserto del sesso, Rubbettino, pp. 180 € 5,90
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