La critica al leguleismo partenopeo è talmente vivace che viene da ballarci su, se esso non avesse contagiato tutta l’Italia: non c’ chi non s’accorga “che, così facendo, a disordine si aggiunge disordine, e che non v’è chi non abbia paura di rimettere le proprie controversie nelle mani di un giudice, e non preferisca farsi giustizia da sé”. In nota Bartels ridicolizza Napoli con due cifre. Nel Regno, quattro milioni di abitanti, ci sono dodicimila detenuti, a un costo annuo stimato in 200 mila ducati, in Toscana, un milione, i detenuti sono 65. La questione meridionale viene da lontano, Genovesi e Filangieri sono rose sul letamaio. Le leggi sono (in italiano nel testo originale) “le più matte di tutte, tante e tali che le collezioni delle ecclesiastiche montano a nove volumi in-quarto”, governative, locali e, appunto, canoniche: “Vedete, f.m., che la conseguenza inevitabile di questo stato di cose è la durata interminabile del processo” – f.m. sta per “fratello mio” in massoneria. La Lettera Quarta è la ricerca più approfondita, per l’epoca e dopo, sulle cause della questione meridionale: l’assenza della giustizia. Che il disordine rende ineliminabile, sociale e ora mentale.
Johann Heinrich Bartels, intraprende il suo viaggio in Italia nel 1785, quasi in contemporanea con Goethe: Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, la Sicilia, e di ritorno Livorno, Milano, Genova, Torino. Ha 24 anni, è un classicista, viene da una famiglia borghese d Amburgo, è già Maestro della massoneria. Decide di visitare la Calabria, prima della tappa d’obbligo in Sicilia, quasi per ripicca contro i napoletani che vivamente lo sconsigliavano. Al ritorno nel 1787 si addottora in diritto a Gottinga, e redige le lettere dalla Calabria e dalla Sicilia. Sarà avvocato nella sua città, ma per poco tempo. Nel 1798 è eletto senatore, e dal 1820 per un venticinquennio borgomastro. Morirà di quasi novant’anni nel 1850.
Molte pagine di Bartels, se lette, avrebbero sciolto da tempo i nodi della questione meridionale. La dipendenza da Napoli, capitale sfruttatrice e delinquente, e la giustizia ingiusta anzitutto, e poi, persuasivamente, la proprietà fiscale e assenteista, l’assenza totale di ordine. Da Nicastro in giù Bartels trova, malgrado il terremoto e l’inevitabile sciacallismo, grande confidenza contro il crimine: “Tanto insicura è la Calabria Citeriore (il cosentino, n.d.r.), tanto sicura è la Calabria Ulteriore”. Là “tutti si lamentano di furti e omicidi e si rifugiano nelle loro tane”, qui uniscono le forze, nel lavoro e nel commercio. e si proteggono a vicenda. Ma sempre in controluce il problema della Calabria è Napoli: “la pigrizia dei Napoletani, un’indolenza… unita alla crudeltà più sconsiderata”, e l’esosità. Nulla si può produrre e vendere in Calabria senza pagare tributi proibitivi a Napoli e sottostare a burocrazie vessatorie, questa è la verità del Regno: “Ogni qualvolta ho parlato coi Napoletani del commercio calabrese, essi dicevano (in italiano nel testo originale): I generi e i prodotti di cui abbondano le Calabrie e di cui fanno uso i Napoletani”. E: per i Napoletani “sembra… scontato che la Calabria sia la loro vacca da mungere” .
Bartels documenta in dettaglio l’economia, la storia, l’ordinamento sociale e la politica, la giustizia. Mostrando di essere stato nei posti di cui parla. E abbatte, preventivamente, innumerevoli luoghi comuni. C’è onestà: nel terribile terremoto del 1783 le ruberie sono state isolate. C’è lealtà, e generosità. C’è bellezza fisica, malgrado la povertà. “Si accede liberamente alle vigne e ai frutteti” – questo succedeva ancora negli anni 1960, quelli della Grande Emersione democratica che per primo apprestò la Grande Recinzione.
Johann Heinrich Bartels, Lettere sulla Calabria, Rubbettino, pp. 271 € 7,90
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