Non si viene a capo dell’evasione fiscale in Italia perché non si vuole, non si può, venire a capo dell’economia in nero. La scienza delle Finanze è ferma da un cinquantennio di fronte a un fenomeno pur così grave perché rischierebbe di incidere su quello che a tutti i riguardi è un assetto sociale dell’Italia: l’economia in nero stimata attorno al 20 per cento del pil, e a questa misura corrisponde la stima del gettito fiscale mancante, fra i 120 e i 180 miliardi.
Sfuggono al fisco i servizi artigianali: meccanico, idraulico, elettricista, falegname, muratore. Buona parte ancora, malgrado la possibilità di deduzione delle relative spese, dei servizi sanitari. Per il noto, semplice, meccanismo: l’utente ha interesse a non pagare l’Iva, il percettore a celare il reddito effettivo. Nonché buona parte degli affitti: la registrazione comporta un canone più elevato. Si spiega in questo modo anche la relativa indifferenza a un’incidenza fiscale fra le più elevate al mondo, se non la più elevata. E sfugge la cosiddetta Nuova Economia, che si fa crescere esponenzialmente con le regole non dette del mercato del lavoro, delle partite Iva obbligate, di chi dev’essere pagato poco e occasionalmente – detti nuovi precari, ma già vecchi di vent’anni lavorativi.
L’argomento viene esaurito di solito imprecando ai ricchi che nascondono i capitali, talvolta all’estero. Ma i ricchi in realtà, che poi sono in gran parte banche e finanziarie di varia natura (questo perlomeno è quanto s’è visto con i due scudi fiscali” di Tremonti, il rientro agevolato dei capitali dall’estero) le tasse le pagano. Anche se non “tutte” – hanno consulenti altrettanto preparati e ovviamente più ingegnosi dei funzionari dell’Agenzia delle Entrate. Quello che realmente fa la differenza è l’evasione “di massa”, o di base.
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