Alla fine resiste di più, attaccato al vecchio, chi si vuole rivoluzionario. Mentre il conservatore, volendosi saggio, Max Weber direbbe disincantato, vede per il meglio. Il “paradosso” di Armando Torno non è nuovo, ma vederlo applicato massicciamente, com’egli sa fare in questo svelto, garbato, inoppugnabile pamphlet al progressismo – in realtà il paradosso è qui del progressismo – è lettura irresistibile. Specie alla cura di sé, dalla fitness al botulino. Fino all’argomentata abolizione (“nessun manuale di casuistica può accusarvi….) del peccato di lussuria, poiché non si stringe più che silicone. Toccando temi seri come la globalizzazione, inevitabile, il lavoro, colpevolmente consegnato alla flessibilità.
Altri che avrebbe potuto meglio trattare, da amabile ex direttore del supplemento culturale del “Sole 24 Ore”, il postmoderno in filosofia, il post-sperimentalismo in letteratura, finito nelle scuole di scrittura, Torno si limita ad accennare sprezzante, forse a ragione. Ma la conclusione sicuramente vuole troppo modesta. “I conservatori”, annota, “si camuffano. Da progressisti, da innovatori, da quel che capita”. In Italia, però. Solo in Italia, non nel resto dell’Europa, da Lisbona a Parigi, Londra o Mosca. E non da ora - anche i fascisti, nessuno si voleva conservatore. Ciò fa il “blocco storico” dell’Italia, una sorta di blocco intestinale del corpaccione Italia, variamente detto “trasformista” ma così affine alla corruzione – alla necrosi.
Armando Torno, Il paradosso dei conservatori, Bompiani, pp. 105 € 14
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