lunedì 31 ottobre 2011

Il mondo com'è - 73

astolfo

Corruzione – Dà un potere immenso, di ricatto. Al ricattatore, che può essere indifferentemente nella posizione del corrotto o del corruttore, o anche soltanto del tramite, del pagatore, del testimone occasionale, del banchiere, cioè dell’elemento moralmente più debole.
In politica è suicida. È una cambiale di resa con disonore firmata prima di scendere in campo. Si dice per i costi della politica. Ma la politica viene così resa impossibile.

C’è qualcosa di nuovo nella corruzione, il fenomeno asociale più antico, più probabilmente della prostituzione. Si possono immaginare le nostre prime sorelle promiscue, ma non per una mercede, mentre si sa per certo che i rapporti tra Abele e Caino si misero male subito. La novità è la corruttela della questione morale. Agitata da violentatori e assassini professi, prosseneti, maghi, falsi maestri, e ideologi, torturatori mentali.
Sempre il moralismo copre la corruzione, in tanti lo hanno spiegato e dimostrato, da Aristofane alle maîtresse di New Orleans. La lotta alla corruzione si fa – si può fare – per essere più corrotti degli altri. Così è sempre stato, e c’è una ragione. Contro la corruzione, come contro ogni altro delitto, c’è la legge. La “lotta alla corruzione”, come “la lotta alla prostituzione”, “l’antimafia” e ogni altra “causa” settorializzata, sono appropriazioni a fini di parte, e perfino personali, di esigenze pubbliche e beni comuni. Con più capacità delittuosa, evidentemente, dei perdenti. È così che oggi, sotto queste coperture, la corruzione è senza freni: è criterio per le liste dei partiti, e per i partiti stessi, fa le vergini del gossip e delle tv, dilaga nella già maleodorante Rai, la corruzione intellettuale.
Asor Rosa che il 6 agosto 2008 sul “Manifesto”, accusando Berlusconi di fascismo, così sintetizza il personaggio: “Fattore di corruzione, nasce da una lunga, insistita, fortunata pratica della corruzione”, e “non sa che governare attraverso la corruzione”, è rimasto famoso alla Sapienza di Roma non per i suoi studi di letteratura ma per essere stato un barone. Affidando cattedre a parenti e affini, e infine pretendendo di smembrare la sua facoltà per mantenerne il controllo.

I giudici che lavorano un giorno a settimana. Sono cioè presenti in aula, senza obbligo di leggersi le carte. Giustificandosi col produrre sentenze di quattrocento pagine. Quando ne basterebbero quattro. O le infinite trovate con gli autovelox, non per migliorare la sicurezza sulle strade ma per estorcere denaro in nome della sicurezza: rilevatori nascosti, camuffati, sotterrati (sic!, a Torrimpietra, trafficatissima strada attorno a Fiumicino), a cento metri dal limite di velocità, quando bisognerebbe aver frenato all’improvviso (a Firenze, sulla Siena-Firenze, anche a cinquanta metri), per un chilometro di eccesso, ogni giorno per i centocinquanta giorni che si possono far trascorrere fino alla notifica, cioè alla rivelazione del trucco. Con le quali i comuni fanno i bilanci. Alcuni sfrontatamente: quello di Fiumicino per 18 milioni l’anno, di gran lunga l’entrata maggiore, e quelli toscani lungo l’Aurelia – quelli che non consentono di costruirci l’autostrada. E i semafori intelligenti, a intermittenza variabile. Per pagarsi le feste, le notti bianche, e le pratiche laurine che assicurano la rielezione.
È difficile concepire un commercio più disonesto di quello del mercato libero anni Novanta-Duemila. Con la garanzia, cioè col costo suppletivo, di tante Autorità di controllo del mercato. Soprattutto nel settore telettronico che domina i con sumi. Le infinite trappole delle bollette telefoniche, specie dell’ex monopolista Telecom. Sul telefono fisso e, soprattutto, su quello mobile. Una serie di tariffe diversificate col solo fine di confondere il consumatore. La promozione telefonica, a cascata, dei prodotti e servizi più controversi e cari. Da disdire, eventualmente, solo a compimento dell’anno solare, con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, almeno tre mesi prima della fine dell’anno solare. Con la riserva mentale del calling center extra aziendale, cui addebitare tutti eventuali “errori” e responsabilità emergenti in sede giudiziaria – la corruzione è tale che si è creata anche in Italia la class action.
La libertà d’imporre contratti elettrici, soprattutto da parte di Sorgenia, il fornitore più caro, a chi semplicemente risponde al telefono, nella cosiddetta liberalizzazione dell’energia nel primo trimestre di questo sventurato anno. Le infinite e subdole offerte di hardware e servizi per il personal. Dalla stampante a cartuccia d’inchiostro proibitiva, alle metodologie complicate, all’adsl senza limiti – tanto più caro - a chi magari ha il wi-fi.

Polizia politica – È la giustizia mediatica, di giudici e giornalisti. Al motto di Di Pietro: “Quando posso, gli indagati li sbatto in galera”. Come esibizione di potere, ma anche come garanzia di fama: il giudice è strapotente in Italia perché il giornale lo vuole. I connotati che Gor’kij, grande esperto, ne dà nella “Storia di un uomo inutile”, la storia di un “infiltrato”, sono riconoscibilissimi, ogni cronista se ne trova circondato: “Persone con fisionomie inafferrabili, taciturni e severi”. La “severità” è il tratto principale: la polizia politica ha “occhi severi”, perché segreti – “il segreto circonda i loro oscuri affari”. Temibili sempre, agli occhi della stessa polizia. “Di loro dicevano, con grande invidia, che guadagnavano molto, e con paura raccontavano che a queste persone tutto era noto e accessibile”, a all’epoca non c’erano le intercettazioni; “il loro potere sulla vita della gente era immenso, erano in grado di mettere qualsiasi persona in una condizione tale che, ovunque fosse andata, sarebbe finita sicuramente in prigione”. Nulla di scandaloso: l’agente della polizia politica antisemita dello zar a volte è ebreo.

Repubblica - È democratica. Si discute se i vizi della Repubblica Italiana, la faziosità, la rissosità, la frammentazione del bene pubblico (la governabilità) non derivino dall’esperienza fascista, siano una reazione a quell’epoca. Che però è remota sotto ogni aspetto. Mentre la Repubblica è quello che è, dopo settant’anni: cattolica, comunista, berlusconiana, leghista. Un’Italia, si può anche dire, completamente nuova: è democratica. Prima c’era l’Italia risorgimentale, fino a tutto il fascismo compreso (nei linguaggi e le tematiche: la patria, la potenza, i primati). E il Risorgimento era già un reliquato notabilare. Nuovi ceti, nuovi interessi, nuovi modelli intellettuali hanno fatto irruzione con la fine della guerra: l’Italia repubblicana è operosa, creativa, menefreghista, piuttosto sudicia e lazzarona, disordinata, cuirosa, populista molto, molto democratica.
Le due Italie in realtà sono una. Con una cresta notabilare ancora imperversante, poco flessibile, poco intelligente, molto ingessata. Ma una cesura c’è stata. Sono cadute le vecchie finzioni: i tre poteri del liberalismo pre-1789, la definizione super partes della res publica, i valori sacri, il patriottismo. Sostituiti dalla prima, vera, ideologia nazionale, il capitalismo: la sfida, l’affare, il consumo. La res publica è la ricchezza.

Revisionismo – Il vero revisionismo s’incide sulla Resistenza: tutti combattenti di colpo in Italia contro il fascismo, il tedesco lurco, l’imperialismo, il potere. È il nuovo conformismo, che ogni derivazione taglia, ogni nuovo sentiero. Il suono ritmico del mitra atterrisce, ripetuto, perfino Sciascia si prepara al ritorno all’ordine, alla scuola del Montanelli lamentosa, c’è un conformismo del non conformismo. E potrebbero aver già vinto, sono in vantaggio. Bisogna apprestare la difesa, anche se difficilmente ci sarà indulgenza.

astolfo@antiit.eu

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