Il piano della Confindustria è abborracciato dal punto di vista economico. È in realtà un piano politico. Di propaganda contro il governo e, soprattutto, pietra di fondamento dell’alleanza di governo del Pd con l’Udc e\o il cosiddetto Grande Centro di Casini, Fini e Rutelli. L’idea che D’Alema e Bersani stanno preparando da tempo, col sostegno convinto di Caltagirone-“Messaggero”, e ancora non annunciano. E che nel caso del manifesto della Confindustria è stata fatta avanzare dai due fiduciari Mussari e Marcegaglia. Questo è quello che Di Pietro e la Sinistra di Vendola sospettano, e i berlusconiani danno per scontato.
Il piano è in sé perfino assurdo alla sommatoria, per uscire dalla crisi ormai ventennale in Italia proponendo una tassazione accresciuta dei contribuenti. Non straordinaria ma annuale. Lasciandone fuori gli evasori, le imprese, lo Stato. Un piano inapplicabile oltre che ingiusto, nel senso che ucciderebbe i consumi, che Tremonti ha alla fine protetto, e quindi aggraverebbe il ristagno – la crisi dell’Italia, ormai ventennale, è il ristagno dell’economia, la quale non può scrollarsi di dosso, in regime euro, la cappa soffocante del debito. Ma il piano è solo un invito a nozze, affrettate.
Le riserve di Di Pietro sono ritenute strumentali all’interno del Pd: l’ex giudice punterebbe solo ad alzare la posta. Il suo partito è comunque necessario per dare i numeri al sinistra-centro. Ci sono dubbi invece sullo schieramento di Casini, titubante ad un’alleanza elettorale col Pd perché teme che gli elettori residui, in Sicilia e a Roma lo abbandonino. Mentre non viene escluso un accordo, post-elettorale, col Pdl senza Berlusconi.
Nel Pdl prevale, per ora, la risposta polemica. L’accordo di Marcegaglia con la Cgil nei casi Fiat non sarebbe prodromo della futura intesa politica, sarebbe solo insostenibile. Al punto che l’abbadono di Confindustria da parte del gruppo torinese potrebbe perfino portare a un ridimensionamento, se non a una scissione, della Confindustria stessa.
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