È la parabola di un levantino immigrato in Francia nella grande guerra, Dario Asfar, un “meteco”, povero ma addottorato, che fa sua la violenza della società in cui vive, inventandosi il dopaggio nervoso per la gente di successo. Un te absolvo laico sufficiente a rimontarli, seppure sempre critico di se stesso. Con finale amaro – ma non cattivo, la differenza sarà importante. Lo affiancano via via una generalessa russa, piccola usuraia a Nizza, che sarà broker regina a Parigi, un potente portiere d’albergo a cinque stelle, Ange Martinelli, poi derelitto, e la mantenuta Elinor. Questa soprattutto, la donna di tutti i delitti, che anch’essa ricorda la fame - “crepare di fame sul pavé di New York” - ma anch’essa costruisce, e ben solidamente: una grande azienda automobilistica, la sua vita e quella di Dario.
È il romanzo di due “costruttori”, molto balzacchiano nell’impianto - la Némirovsky si precisa narratirce sociale, alla Balzac - se non nella scrittura. Che qui scorre svelta, a fogliettone, ben secondata dalla traduttrice Marina Di Leo, ogni puntata una storia: il protagonista è un “lupo affamato” che diventerà “bestia selvaggia”, lo stesso la deuteragonista. È il racconto di una duplice riuscita, anche se a costo, apparentemente, del sacrificio di sé per l’opera. Anche se L’opera (il successo) è sempre incerta. Avrebbe potuto essere il romanzo degli anni Trenta, a cavallo della Grande Crisi, con una struttura più consistente. Ma è il racconto più ingombrante, l’altro romanzo “antisemita” di Irène Némirovsky, dopo il “David Golder” di dieci anni prima, che le aveva dato fama e lettori. Benché con tutta evidenza non lo sia.
È la stigmata che su di esso hanno impresso i biografi della scrittrice, Philipponnat e Lienhardt, nell’introduzione alla riedizione (qui più opportunamente in postfazione). Bizzarramente. Dopo avere cioè dato tanti pratici e utili punti di riferimento al racconto stesso. Tra essi il tentativo di interdizione per via giudiziaria nel 1935 di Bernard Grasset, editore della stessa Némirovsky, da parte di familiari e azionisti. La questione sarebbe posta dal fatto che il racconto uscì a puntate su “Gringoire”, una rivista più antisemita che non. E che il protagonista e la moglie Clara vengono dai ghetti poveri di Odessa. Il racconto era uscito col titolo “Les Échelles du Levant” (non più riutilizzabile alla prima riedizione in volume, nel 2005, essendo diventato nel frattempo il titolo di una narrazione di Amin Maalouf), che echeggia gli scali del Levante ma nel senso di “salvati”, sopravvissuti.
Clara è detta di madre ebrea, Dario di genitori greco-italiani. Ma entrambi sono ripetutamente, a ogni puntata, “meteci”, parola che allora stava per ebreo, argomentano Philipponnat e Lienhardt. I quali Asfar, che in arabo è viaggiare”, vogliono “nome punico assimilabile a Ahasverus”, l’ebreo errante. Il tutto “sulla scena «razziale», che è il fondale del… tempo”. Con una difesa d’ufficio, da parte dei due futuri biografi, che aggrava i sospetti: “Irène Némirovsky non produce stereotipi infami, li svia”. Stereotipi che “fanno parte della panoplia letteraria francese dopo Voltaire e l’illuminismo”. Più difficile l’ebraismo con Elinor, ma i due insistono. La diabolica deuteragonista, “che rappresenta qui il richiamo dell’eredità”, dicono Philipponnat e Lienhardt, “è l’anagramma di l’Oriente”. E orientale, in Maurras, Léon Daudet, Céline e anche Martin Buber, “è sinonimo di Ebreo”. Mentre Elinor è per l’autrice che “l’Americana”, la donna dura – personaggio anche tropo semplificato.
“Gringoire” è un’altra questione. Pubblicò il racconto dal maggio all’agosto 1939, alla vigilia della guerra. E sarà l’ultima cosa che Irène Nèmirovsky avrà potuto firmare col suo nome. Già il suo editore Albin Michel protestava l’opportunità di non riprenderlo in volume, stanti le leggi razziali. “Gringoire” era il settimanale di maggior tiratura a Parigi negli anni 1930. Con tratti sempre più antisemiti, che nel 1935 costrinsero Joseph Kessel a lasciarne la direzione letteraria. Irène Némirovsky, che era stata introdotta a “Gringoire” da Kessel, continuò invece a collaborare. Ma nella stessa rivista, dicono Philipponnat e Lienhardt, Marcel Prévost poteva denunciare “la persecuzione degli Ebrei”, ed elogiare il temperamento slavo e la chiarezza francese di Irène Némirovsky. Era l’epoca. Horace de Corbuccia, l’editore di Gringoire” e sua moglie Adry, erano personaggi in vista della società parigina. E Irène era elogiata dall’“Action Française”, il giornale nazionalista e antisemita, da Brasillach nel 1932, da Maxence nel 1939.
Anche questa ricostruzione dei biografi si presta all’equivoco: si può pensare Irène una venduta ai suoi peggiori nemici. Tanto più che “Fantasio”, l’altra rivista, bimensile, su cui pubblicava, fin da quando era studentessa nel 1921, “si distingueva per la stupidità e la grossolanità del suo sciovinismo”. Ma tutto questo riguarda l’editoria, e forse le opinioni politiche della scrittrice, come di tanti altri ebrei, non l’antisemitismo.
C’è spesso nella narrativa d’Irène Némirovsky, per ispessire i personaggi, la generalizzazione: ci sono gli “ebrei”, come i “borghesi”, gli “intellettuali”, i “meridionali”, qui le “americane” e la “confusione russa”. E i destini sono più spesso perdenti. Ma questo è un modo di vedere la storia diffuso, per esempio, nell’Ottocento e il Novecento italiani. Si può anche dire un marchio della scrittrice, una sorta di dato metafisico: la povertà induce la colpevolezza, e così la separatezza. Lo fa dire anche a Dario di se stesso: “Non puoi cambiare la tua carne. Non puoi cambiare il tuo sangue, né il tuo desiderio di ricchezza, né il tu desiderio di vendetta”. O altrove, come lo stesso risvolto editoriale sottolinea: “Io credo che esista una fatalità, una maledizione: sono destinato da sempre a essere un mascalzone, un ciarlatano. Non si sfugge al proprio destino”. Ma non c’entra la razza o la stirpe.
Sospettare di antisemitismo chi ne è morto, ad Auschwitz, non è onesto e non è possibile. Irène Némirovsky ha avuto gravi problemi con i genitori, che ha riflesso sull’eredità o le origini, oltre che di integrazione in Francia, e più come scrittrice francese - “il 2 febbraio 1939, la Chiesa vuol bene accordarle il battesimo, ma lo Stato le rifiuta la naturalizzazione”, ricordano in conclusione i biografi. La Francia è nel romanzo l’inaccessibile – troppo bella, troppo saggia e amabile, e alla fine insensibile: nella figura di Sylvie, che è parte di tutte le tragedie del racconto, ma incontaminata. L’ebraismo è per Irène un problema, ma è quello dell’allontanamento, da una radice che per più motivi, l’arretratezza della Russia a Kiev, la madre, il padre, la Francia, difficilmente è fertile o componibile. Soprattutto quando l’identificazione si vuole totale. Gli anni dopo la prima grande guerra, di grande immigrazione dall’Est, sono per l’Europa in piccolo, anche se con in più il nazismo, quello che oggi è in grande il rifiuto – reciproco – con l’islam.
Poi c’è Clara, la moglie buona e fedele, che è forse la vera protagonista, nel senso dell’autrice. Che in un mondo di ambizioni ridotto al denaro, in cui niente si oppone alla miseria, materiale e morale, ripropone, fragile e ferma, il mistero dell’amore. È Clara, a dire la verità, difendendo Dario, il padre “ciarlatano”, contro l’amatissimo figlio: “Voleva il bene con più forza, con più ardore di chiunque altro, non è colpa sua se gli avete dato questo sangue, questi desideri, questa febbre, questa facoltà di amare e odiare più forte degli atri. È impastato col fango della terra”.
Irène Némirovsky, Il signore delle anime, Adelphi, pp. 240 € 18
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