Piccolo naviglio sono le barchette di carta sul fiume del tempo. Un’immagine lieve per un secolo di storia italiana di grande felicità narrativa. Un racconto, anche, di racconti che lasciano il segno: gli scolopi bianchi, il parto unico delle gemelle, la grammatica francese, il piccolo naviglio del titolo, tra i tanti.
Tabucchi v’inaugura “il fenotipo” - come lui stesso dice nel preambolo a questa riedizione a lungo attesa (trentatré anni) del racconto - del “suo” personaggio: “Sconfitto ma non rassegnato, ostinato, tenace”. Il suo fondo gor’kijano, qui accentuato dal punto di vista infantile. Ma più conta la scrittura favolistica, fatata. Perfino secentesca, manierata (“ le mandibole della Storia”, il “porto affrancato dalle dogane di Euclide e dall’abbeccedario”, “la finestra assediata dalla notte”) nell’adesione al modello, ma svelta, sapientemente spontanea. Di un’umanità uniformemente dolente, i perdenti della storia, tra le disgrazie (persecuzioni, malattie, follie, mestrui, parti, morti sul lavoro, stupidità, avidità) e tuttavia vivace.
Tabucchi v’inaugura anche con grande fantasia la ripetizione e l’intercalare del genere filastrocca, che lo accompagneranno fino a “Sostiene Pereira”, prima dell’involuzione politica (antipolitica). Una voce del destino, che ne inquadra la classicità, il fluire della narrazione (immagini, persone, qui la storia politica) nel tempo uguale a se stesso. Il reale brilla a tratti, tremulo, come sarà in “Sostiene Pereira”, con l’incostanza-intromettenza del miraggio. I cui fili sempre trae una mano infantile, incerta, seppure in corpo adulto
Antonio Tabucchi, Il piccolo naviglio, Feltrinelli, pp. 206 € 15
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