Nella caduta degli idoli il revisionismo è stato una delle ultime trincee, l’accusa di revisionismo come tara intellettuale e insulto (voltagabbana, opportunista, venduto), non potendosi più esercitare le categorie classiche della censura preventiva, fascismo e fascista. Una difesa debole, più del tipo barricate improvvisate, dalle quali sparare nel mucchio, che una trincea solida, via via abbandonate o trascurate. Presto soppiantate, come ovunque ormai in quel campo di macerie, dal silenzio – che non si vuole elaborazione del lutto ma lo è, si spera che lo sia (lo dovrà pur essere, se non per onestà intellettuale per opportunismo: le opere critiche autocritiche si sentono venire, nell’editoria se non nell’irrancidita università della storia).
Pansa se ne fa titolo d’onore, a capo di questa originale biografia intellettuale, arrivata in pochi mesi alla Bur per il successo di lettura, nel sepolcrale silenzio dei media, di cui pure Pansa è uno dei principi. Ma anche lui, si avverte a ogni pagina, soffrendone. Come avviene alle vittime di mafia, che un po’ se ne vergognano, non potendo, per orgoglio e rispetto della legge, minacciare, bruciare, sparare, terrorizzare a piacimento, nella società mafiosa. Pansa lo fiuta, lo avverte, che si fa scudo dei tanti lettori di buone intenzioni, di cui però sa che lo seguono per fatto personale, non perché la storia vera vada scritta. Ma non lo dice, e questo è un limite. La revisione anticonformista si vuole d’altra parte radicale, non compromissoria.
L’accusa di revisionismo è piovuta addosso a Pansa perché, da giornalista sicuro compagno di “Repubblica” e “L’Espresso”, ha osato narrare e storiografare gli anni della “seconda guerra civile”, contro fascisti veri e presunti, uccisi proditoriamente in gran numero. Pansa se ne difende con un’esigenza di verità, e con l’obbligo di libertà di lasciare la parola anche alle vittime. Di lasciar esprimere anche una cultura di destra. Ma il problema non è se c’è, o non c’è, una cultura di destra – e perché ce ne dovrebbe essere una, ce ne sono così tante “a sinistra”? Pansa sa di che si tratta, dopo cinquant’anni nei giornali, vissuti come ha fatto lui con la sua passione ogni giorno totale, ma non osa attaccare la sua società mafiosa, il giornalismo, l’accademia, il loro modo d’essere mafioso – attacca un Partito che non esiste più, da molti anni ormai.
Sui delitti della seconda guerra civile a senso unico, subito prima e per alcuni anni dopo la Liberazione, non c’è peraltro revisionismo contestabile. Sono un fatto, e sono ben più numerosi dei trentamila che Pansa, timidamente, fa conteggiare a un centro di documentazone - sono almeno cinquantamila. È dunque un libro realmente di memoria, più che di polemica politica o storica. A tratti commovente. Molto ben scritto nei capitoli iniziali, con una lingua grassa grazie all’uso sapiente del dialetto. E resta un’appassionata, come è sempre dell’onest’uomo Pansa, e forse per questo prolissa, ripetitiva negli ultimi capitoli, denuncia dell’ipocrisia che soffoca la storia e la storiografia della Repubblica. Piena di aneddoti e ritratti, di Scalfari, Caracciolo, Rinaldi, il principe Borghese, Bobbio studioso di nessuna saggezza, Firpo, Guido Quazza, Andrea Scano, Otello Montanari.
Pansa è saldamente nella storiografia. Con “Il sangue dei vinti” una durissima censura sugli studi di storia, spessa mezzo secolo, di omissioni e volute alterazioni. Non è stato il primo, ma è quello che ha ottenuto l’effetto. Pansa è anche uno che si segnala per il coraggio, fra i grandi giornalisti italiani, oltre che per l’acume, per un anticonformismo che non si può non apprezzare a fronte dell’opportunismo che invece domina – si pensi solo a Montanelli, o al qui lungamente presente Mario Melloni (“Fortebraccio”). In particolare, è stato autore, solitario, isolato, di un celebre atto d’accusa contro la stampa opportunista, col suo “giornalista dimezzato” trent’anni fa, scritto ben due volte, su “Reubblica” e su “L’Espresso”. Non avrebbe insomma da difendersi, se non per un curioso senso di colpa - non di avere detto la verità, evidentemente, di avere perduto alcuni compagni di strada?
Nella parte giornalistica di questa memoria Pansa ha anche delle strane ingenuità, che sembrano reticenze. Specie sugli ultimi suoi anni a “Repubblica” con Scalfari, e su quelli con Rinaldi all’“Espresso”, di cui era condirettore, e in generale su tutti i giornali nei quali ha lavorato. Rinaldi era uno che aveva stima solo per De Mita, attesta Pansa, che non per questo ne riduce la caratura. Si dice anche sicuro che De Benedetti ha riempito Scalfari e Caracciolo di soldi per la metà del gruppo Repubblica-L’Espresso, mentre sanno tutti che gliel’ha scontata a debito. E rappresenta un incongruo Scalfari che, mentre “Repubblica” diventava il giornale del compromesso storico, con Andreotti e De Mita per intenderci, dichiarava la sua erotica attrazione per Berlinguer, e sostituiva redattori e dirigenti con giornalisti dell’ “Unità” e di “Paese Sera”, d’intesa con Adalberto Minucci, responsabile per i giornali di Berlinguer, è fronteggiato asperrimamente dal partito Comunista. Ma, forse, l’ingenuità politica è il forte di Pansa – anche se, per uno storico, è stravagante.
La verbosità è anche indice del fatto che Pansa prende molto sul serio l’ortodossia che contesta. Perché ne conosce il radicamento, e il residuo potere, seppure frazionato per oscuri rivoli. Ma soprattutto, sebbene sotto traccia, perché ne teme gli argomenti. Che invece sono sterili e anche stupidi – se anche gli assassinati fossero stati mille e non cinquantamila? Forse perché Pansa, pur avendone descritte tante ottimamente, da “cronista di razza” quale si vuole e per tanti anni è stato, non è mai stato dentro un’assemblea o una cellula, neppure nei tanti giornali nei quali ha lavorato, dove solo la parola d’ordine conta, il resto è vedettariato, ininfluente, il Partito più che intelligente si vuole cinico. Si sorprende così che sia necessario scrivere 500 pagine, nel 2010, per difendersi, e perché mai uno come Pansa deve sorprendersi, se il compromesso domina e l’Italia è l’ultimo paese ancora sovietico? Inavvertitamente lo fa dire a Melloni “Fortebraccio”, di cui mostra di non avere stima (o essere “dichiaratamente cinico” è un elogio?): “Un cattolico ha una sola tentazione: quella di diventare comunista. Può forse aspirare a diventare, non dico socialdemocratico, ma liberale?”. Che rigirato è l’esito di oggi, dei comunisti diventati democristiani, anche se sempre “tutti un suol uomo”, quali li vuole il centralismo democratico – il risultato, direbbe Melloni, non cambia: “La soddisfazione più grande l’ho provata quando, espulso dalla Dc, invece che un libero pensatore ho scelto di diventare un libero conformista”.
Non si tratta di rifare la storia, Pansa non si rifà a Philip Dick e a “La svastica sul sole”, dove Hitler ha vinto, cosa che avrebbe potuto: i vincitori hanno vinto e i perdenti hanno perso, per molti buoni motivi. Ma poi, dopo la vittoria? Una buona leva del revisionismo era stata data a Pansa da un filosofo, Franco Cassano, nel “Pensiero meridiano”, del 1996: “L’attenzione per gli effetti che i rapporti di forza esercitano sulla struttura del campo culturale dominante”. O l’attenzione all’“ambiguità” che attraversa la storia “in profondità, e che solo in rari momenti affiora alla superficie”.
Il discorso sul revisionismo sarebbe anche molto semplice: tutti hanno vinto la guerra, e si godono la modesta rendita. Il vero revisionismo s’incide sulla Resistenza: tutti combattenti all’improvviso in Italia contro il fascismo, il nemico tedesco, l’imperialismo, il potere. È il nuovo conformismo, che ogni derivazione taglia, ogni nuovo sentiero, vuole solo vicoli ciechi. Il revisionismo non è eretico – se non per alcune sezioni dell’ex Pci. Nolte vuole la guerra civile addirittura europea, e lunga dal 1917 al 1945, un’altra guerra dei Trent’anni. Il revisionismo, per non scadere nell’opportunismo (adeguamento alle circostanze dominanti, anch’esso) richiede vigilanza costante e spirito critico, anticonformismo.
Giampaolo Pansa, Il revisionista, Bur, pp. 484 € 12
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