Giuseppe Leuzzi
Milano
Non è la prima volta che la Lega vuole i ministeri. Già Maroni aveva aperto una succursale dell’Interno, nientemeno, a Milano nel 2003. In precedenza la pretesa era stata avanzata dal sindaco berlusconiano Albertini, al grido: “Se Roma è la capitale, Milano è il capitale”.
Di nuovo c’è ora che Napolitano vuole sbolognare il governo. Per una grande coalizione. Senza parere. A piccoli strappi. Si può dire che è Napoli che muove Milano? È un caso di comunione d’interessi.
Woodcock sollecito ha mandato a Milano anche le virgole delle chiacchiere, all’orecchio assoluto dei colonnelli della Finanza (due e-mail innocenti d’impiegati Mediolanum, l’affitto di Tremonti, etc.) Mentre non ha mandato a Roma le sue inchieste su Roma, un atto palese d’illegalità. Protetta, bisogna dire dal Csm, cioè dal presidente Napolitano, la napoletanità c’è e lavora.
Da buon napoletano Woodcock sa chi comanda: è Milano. Nelle vesti del vice Procuratore Francesco Greco, primo napoletano della capitale morale.
C’è molto Borromeo nel Sud della Germania, la Baviera, il Baden, l’area ricca del paese, la più ricca d’Europa, e cattolica: collegi, suore, conventi. A conferma che Max Weber sbaglia sulle “origini” del capitalismo (ma il vero Weber non dice in nessun luogo che il capitalismo nasce col protestantesimo, questo è vero solo in Italia, per l’anticlericalismo, solo ne analizza una figura, quella del trhift). E di un comune destino “lombardo”, di qua e di là delle Alpi. Che si ritrova nella religiosità, molto controriformistica, oltre che nell’operosità.
Non c’è nessun calabrese nello scandalo alla provincia di Milano. Né c’è Berlusconi. Che novità è questa? Forse perché l’hanno sollevato i giudici di Monza, non i napoletani di Milano.
Berlusconi è triste da qualche tempo. Nemmeno la televisione lo stimola più, apparire – per non dire delle troie, ha fatto un’estate di continenza, il compagno Zappadu ha dovuto ripiegare sulle statue. Si pensava la depressione causata dalla sconfitta alle elezioni nella diletta Milano. E invece no: a tutti, anche a Lino Banfi, confida che è triste perché l’hanno costretto a pagare il salatissimo riscatto a De Benedetti. Che, intascato il malloppo, non lo libera. Una vera ghenga di gentiluomini.
Sicilia
L’orgoglio dell’isola sono i normanni, francesi. E i Vespri, antifrancesi. Un odio che il nuovo orgoglio ortodosso, della “vera fede”, rinnova, che i francesi dice (tutti, normanni e angioini) “gli agenti del papa”.
Ogni libro di Camilleri, seppure ora a frequenza mensile, è sempre un bestseller, il numero uno delle classifiche. Considerato che sono ormai scritti in una lingua accessibile solo a siciliani e calabresi, è come se le due regioni da sole facessero il top market, almeno nei libri.
Quasi la metà delle monete greche della collezione privata Gulbenkian a Lisbona vengono dalla Sicilia. Era l’isola già allora prodigale, inflazionistica? O espatriare monete dall’isola è più facile?
Ci fu in Calabria, nel 1848, “un’insurrezione di vasta portata in Calabria”, narra lo storico Mike Rapport in “1848”. Criptico. Ma con un particolare: “Una forza di 600 siciliani inviata in aiuto della rivolta calabrese si rifiutò stizzosamente di avere a che fare con i contadini”.
Calabria
Le donne scalze erano l’ossessione di Alvaro a San Luca, segno di degradazione. Ora vanno su tacchi alti e puntalino, bionde ossigenate, e hanno parte attiva nel business, compresa la strage di Duisburg.
Arthur John. Strutt, il pittore-paesaggista-acquarellista inglese che nel 1841 si avventura con un amico a piedi in Calabria, balla a Spezzano le “torsioni misteriose della tarantella”. Convitato da tre belle ragazze, Angiola, Carolina e Rosa Maria.
Capita solo qui di aggirarsi fra contadini-contadini. In un mondo cioè di contadini reali: generosi, presuntuosi, diffidenti, e quindi oggi faticosi. Anche quando esercitano una professione. Anche in città, con l’eccezione, forse, di Cosenza, e di piccole porzioni di Catanzaro, Vibo e Crotone – Reggio è un paesone, di contadini inurbati. La Calabria non ha città.
In Sicilia il contadino residuo è “villano”, cittadino di seconda serie, con quale non si ha commercio. E così in Puglia, nel Gargano, nel Salento: i contadini vi sono forme residue, marginali per la loro stessa mentalità - la Campania è Napoli, e Napoli è la cultura più metropolitana d’Italia.
Nasce da qui la meraviglia del visitatore? Lo spaesamento, l’indigeribiltà? Altrove in Italia s’incontrano pochi contadini-contadini. Nelle Alpi, ma sono isolati. E nell’Appennino romagnolo, a Bagno e dintorni, ma qui non più isolati. Anzi, ottimi coltivatori, moderni, senza complessi.
Si entra in Calabria, lungo la famigerata Salerno-Reggio Calabria, con l’impressione di attraversare un paesaggio tedesco. I paesi si chiamano Lauria, Galdo, Laìno Borgo, Mormanno Sono anche puliti.
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“Gli Albanesi si credono superiori, e non di poco, al resto dei Calabresi”. Lo diceva trent’anni fa l’oste di Altomonte, proprietario di terre dove produceva le ottime cose che serviva, fino alla ricottina, anticipatore dell’agriturismo – il cui figlio è albergatore e cuoco a più stelle. Aveva fatto le scuole a Luzzi, paese albanese. Lo stesso diceva due secoli prima Johann Heinrich Bartels, il giovane amburghese che visitò la Calabria nel 1786.
“La Calabria assomiglia a tutto tranne che all’Italia!” è la prima impressione di Adolphe de Custine, giovane esploratore nel 1812 dell’impervia contrada. Con molte lettere ufficiali di presentazione-ingiunzione alle autorità locali da parte del regno murattiano: la rivolta antifrancese è domata, ma i francesi non sono amati in Calabria, la liberazione è cosa complessa.
La natura il marchesino vede meravigliosa, quale è. E l’uomo apatico, quasi indifferente, nella sporcizia, nell’indifferenza, l’uomo maschio. Quando pensa è alle chimere.
A Cosenza, “città pestilenziale la gran parte dell’anno”, trova un barone Mollo famoso improvvisatore, che i nobili della città tengono in grande onore. La specialità del barone è un’ode alla conquista napoleonica dell’Asia. Con gran sorpresa dell’antinapoleonico Custine – ma il barone non improvvisava?
L’irrilevanza (l’incapacità?) della politica è ben sintetizzata da Custine nelle sue “Lettere” del 1812: “Non conosco nulla di più faticoso che una conversazione fra due calabresi sui fatti del giorno: è soprattutto qui che si può dire che la parola è stata data al’uomo perché se ne servisse per nascondere il proprio pensiero”.
Non si capisce come abbia fatto a capirlo, Custine non parlava l’italiano, figurarsi il dialetto, ma è incontestabile.
leuzzi@antiit.eu
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