A una lettura retrospettiva squaderna una verità orrenda: è stato un processo mafioso. Sono mafiose l’accusa, la difesa, la presidenza del Tribunale, la stampa. Non ci sono i morti, ma tutto il resto dell’armamentario sì: avvertimenti, insinuazioni, minacce, ricatti, sempre obliquamente, e negare, negare l’evidenza.
I Salvo sono morti, e dunque Andreotti come roccia sta: mai conosciuti. Negare l’evidenza è massima espressione del potere: la sfida. Con gli stessi testimoni d’accusa, Contrada è condannato, Andreotti assolto. Ma l’obliquità è la cifra della mafia.
Ci sono perfino i piccoli esibizionisti, come è uso nei drammoni di mafia – la mafia li tollera anche nei momenti gravi, per alleggerire i contorni: Giorgio Galli, Scalfari, Pansa. Personaggi che esibiscono senso civico, pur sapendo meglio degli altri in che commedia stanno. Come gli scemi di paese, che si divertono a fare gli scemi.
Lino Jannuzzi, Il processo Andreotti
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