Nessun dubbio che Unicredit sia fallita, ma può non dirlo, e ricostituirsi con lo stesso nome, senza discontinuità. Da due anni non paga dividendi (quello 2010 sul 2009 era simbolico), per la quarta volta in tre anni chiede un aumento di capitale, questa volta per la cifra record di sette miliardi e mezzo (la metà di tutti gli aumenti, in un colpo solo), ha perso nel terzo trimestre quasi 500 milioni, a cui si sono aggiunte cancellazione per ben 8,8 miliardi, di tutte le spese faraoniche sostenute dalla gestione Profumo per creare la famosa banca europea, o transborder. Ma non si dice, e anzi se ne fa un vanto, nelle cronache e nei commenti.
La possibilità per la seconda maggiore banca di fingersi in bonis non è un male. Le banche di deposito non possono comunque fallire, e un trauma non è necessario. Ma l’informazione giusta ci vorrebbe. Per i depositanti, per i sottoscrittori, e per gli azionisti. Questi hanno perso in tre anni più di quanto abbia potuto perdere un azionista Alitalia, cioè praticamnte tutto l’investiment, se partivano dal 2008. E invece l’informazione è solo fatta dai padroni, nel caso la stessa Uniredit-Mediobanca. O, peggio, cronisti e commentatori non possono criticare Profumo, l’artefice del crack, perché si è dichiarato democratico, e anzi voleva fare il ministro.
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