Chiara Moroni che si mette con Fini, l’accusatore forse più feroce di suo padre, più dei giudici di Borrelli. Mario Calabresi che sbarca al giornalismo col gruppo l’Espresso, il circolo di punta Cederna-Scalfari nella criminalizzazione di suo padre. Benedetta Tobagi, che pure sottotitola “Storia di Mio Padre” la sua storia rosa sul terrorismo, “Come mi batte forte il cuore”, che si mette coi mandanti morali dell’assassinio di suo padre, senza mai farne cenno. Sono casi forti di una rivolta radicale: crudele, anzi cannibalesca, di figli che letteralmente straziano i padri. Anche perché non si saprebbe ridurla a casi isolati.
Benedetta Tobagi, Mario Calabresi, Chiara Moroni sono i casi più noti di figli che tradiscono i padri, ma non sono i soli. Il fatto si può dire anzi generazionale, non c’è più continuità nella famiglia, non solo nei mestieri e le professioni ma anche nei principi, che un tempo si perpetuavano per imprinting, naturalmente, senza un indirizzo pedagogico preciso.
Non è una colpa, in certi termini: un figlio non è obbligato a calarsi nei panni del padre, e anzi è meglio se non lo fa. È giusto ribellarsi, è giusto avere una vita propria. Non c’è scandalo in questo. Anche se, nei casi in esempio, tutt’e tre sono figli di genitori rispettabilissimi – compreso il commissario Calabresi, che pure fece male le indagini sugli attentati di Milano nel 1969, alla Fiera e alla Banca dell’Agricoltura, con la pista anarchica (ci saremmo risparmiati tanti lutti?). Non si può però pretendere d’indossare i panni del genitore nel mentre che lo si tradisce, per tradirlo meglio. Specie nelle professioni, giornalisti, medici, professori, magistrati.
Non si saprebbe farne loro una colpa anche per un altro motivo: sulla via del pentimento i percorsi sono molteplici – c’è pure un Sofri che si mette coi suoi persecutori. O si può dire che siano le ragioni di mercato: va il libro della pietas che cancella la verità – che però è la melassa berlusconiana, che attraverso Mondadori (Calabresi) e Einaudi (Tobagi), edulcora i veleni. Certo non è opportunismo.
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