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Città – Parma di Bertolucci, di Bevilacqua, Modena di Delfini, Napoli di Rea, La Capria e tanti altri, Ferrara di Bassani, Dublino di Joyce. Ci sono città che hanno un richiamo totale su certi scrittori, che non scrivono d’altro, e se ne identificano. Altre invece sono teatro di narrazioni diversificate, e sono le grandi capitali, Londra, Parigi, Vienna, Roma, Berlino.
Dante – Il commento alla “Divina Commedia” di Robert Hollander, lo studioso americano che ne è anche l’ultimo traduttore, privilegia il “Paradiso”. Non è solo, il “Paradiso” ha scalzato l’“Inferno” nella predilezione dei critici e del pubblico. E uno non può sottrarsi all’impressione che artefice del mutamento sia Benigni, le sue letture così affascinanti per tutti i pubblici. Poi lo stesso Hollander si dice in debito con Benigni, col quale ha fatto una manifestazione dantesca a Malta.
Duemila – Se ne può delineare un’estetica ben più che approssimata, se non certa. Nessuno mi tirerà fuori da me stesso, dice l’Autore, neppure il mio inconscio, ammesso che ce l’abbia. Per l’Amor Dei intellectualis di Spinoza, si può aggiungere, se non è già di Leone Ebreo, e dunque duplice. Rincorriamo le beatitudini, senza volerlo, senza stancarci, e perché non dovremmo?, il bisogno, il desiderio, il progresso, che sono le sole ragioni di vita, la speranza. Il mondo fondamentalmente è lo stesso. E si può presumere di sé, anche esagerando, seppure non al modo di Stendhal-Brulard, che di sé fantastica essere figlio di re, per questo insolentiva il padre?, e che la Rivoluzione l’augu-sto genitore avesse ordinato quale spettacolo a sua edificazione. Ciò anzi richiede la carità, che è poi tutte le virtù, e comincia applicata a se stessi.
Ma la pratica è avulsa – creativa? È un discorso mediocre, quello che il narratore rivolge al lettore nell’epoca dei procuratori, in forma di difesa, precisazione, accusa, la logorroica memorialistica. Seppure a un lettore specifico, un maresciallo, un giudice, che poi è gente che non legge, e come potrebbero?, i processi si fanno con cento e duecentomila pagine, anche se una scorsa agli atti la devono dare, diversamente dai lettori generici, ai quali basta il sentito dire, sanno già cosa devono sapere. E quindi è come inutile scrivere. Per questo la scrittura s’è fatta minacciosa: ansiosa, violenta, a caccia sempre di dessous, meglio se sporchi. Mentre il vero narratore sveglia il lettore e non l’intimorisce, l’avverte che lo porta in un sogno, sia Dante o Rabelais o il contastorie cashinua. Anche senza la peste fuori, una volta il narratore parlava in una cornice scelta, ai venticinque, gli happy few, ora la cornice è solo di catturandi. Con l’abbandono della psicologia dopo Kafka, quando più vero è divenuto l’inverosimile. Noi vogliamo, con Freud e il surrealismo, allargare le frontiere, ma i prefetti e gli stati maggiori ci hanno preceduto.
Resta la storia, ch’è una e varia. La discrezione di Guicciardini, la sensibilità di Chabod, la congiura di Patrizi. La dialettica della durata di Bachelard, il quadro incerto di Braudel, “la storia anonima, profonda e spesso silenziosa” nella quale “l’individuo è troppe volte un’astrazione”. La spinta alla fama di Coluccio Salutati. L’effetto della posizione verticale, che Herder scoprì. È come le lucciole la notte, che brillano e non illuminano. È pure abitudine, dice Febvre. E casalinga, si consuma di solito dietro le porte: “Quel che nella storia c’è di più ignoto potrebbe essere quello che c’è di più certo”, disse una volta l’ateo Voltaire. È scelta: “Per la felicità degli uni contro la felicità degli altri”, filosofano le “Demi-vierges”. E la complicità ci vuole, non si conciliano altrimenti tante storie.
Il rifiuto della storia va invece – andava - con la delectatio. Sulla traccia di Kierkegaard, il filosofo dell’adolescenza: “La memoria è parte dell’immediato e viene soccorsa nell’immediato, la rimembranza, invece, si avvale solo della riflessione”. O: “L’arte della rimembranza non è semplice, può mutare nel suo farsi, mentre la memoria oscilla solo tra il ricordo giusto e uno sbagliato”. Il solito passo sghimbescio del filosofo, il ghirigoro quale dev’essere d’ogni labirinto, accentuato dalla presunta ebbrezza notturna del vino, seppure placato, in traduzione, dalla rimembranza leopardiana: “Rievocare il passato come per magia non è così difficile come scacciare, per magia, il presente nella lontananza. In sostanza, è questa l’arte della rimembranza e la riflessione alla seconda potenza”.
Gattopardo - In una breve rievocazione dei primi rapporti con Sciascia, tratta dalla “Veridica Historia della vita di Ferdinando Scianna da lui medesimo raccontata” che ha messo online, il fotografo ricorda come, ventenne, fosse andato col nonno alla festa del Serpentazzo a Butera, passando al ritorno per Palma di Montechiaro. Siamo nella Sicilia “africana”, il tratto allora abbandonato da Agrigento a Gela. “A Palma trovai quello che ho poi ritrovato a Benares, o peggio in certi desolati luoghi dell’Africa desolata”, annota Scianna.
Questo non si rileva ma è importante: il contesto del “Gattopardo”. Di una nobiltà incapace, chiusa stupidamente nei suoi riti (i gelati che si squagliano). Che nulla toglie alla capacità di affabulazione del romanzo, ma ne limita la curiosa apocalitticità. L’ultimo Tomasi di Lampedusa era il giudice meno qualificato della Sicilia. I suoi antenati avevano creato Palma, la sua Palma era un rudere malsano per gente immiserita.
Sherlock Holmes - Ne “il riso di Talete” Gabriele Lolli mostra che le dimostrazioni e definizioni per induzione sono veri e propri giochi di prestigio. L’induzione è una delle tecniche preferite per costruire risultati paradossali, a partire dal paradosso del sorite che ne è stato la prima applicazione.
La regola di Sherlock Holmes, ha già detto Lolli, è che “quando il probabile è escluso, l’impossibile è certo”. Ma questa è la regola dei “Tales for a winter’s night”, del testo centrale, la raccolta di racconti del mistero che sono anch’essi un classico, ma sono sherlockiane senza Sherlock Holmes. Con alcuni principi, cioè, del doylismo: l’esotismo; il doppio e le situazioni rovesciate (“The black Doctor”, “The Man with the Watches”) – le pietre rimesse a posto invece che rubate; la ricerca della verità, né più né meno; e quindi, e soprattutto, l’irrilevanza degli indizi, un fatto è un fatto; il principio che “quando l’impossibile è stato eliminato il residuo, per quanto improbabile, deve costituire la verità”.
La forza di Sherlock Holmes non è di lavorare sugli indizi, come tutte le analisi vogliono ma sul fatto. Sorprende per la forza della verità, cioè del fatto, contro ogni verosimiglianza, per quanto imponente. C’è del positivo nel positivismo.
Nessuna delle regole di inferenza riconosciute e accettate è in grado di ottenere risultati normativi da input puramente descrittivi. L’argomento è svolto con ottimi risultati da A.Ayer, “Language, truth and logica”, cap. VI della seconda edizione (Herbert Simon lo parafrasa in “La ragione nelle vicende umane”, p. 17).
Altiero Spinelli, da uomo d’azione, concorda (“La goccia e la roccia”, 97): “La via «razionale» dell’osservare, astrarre, scoprire concordanze, ecc., è un’ingenua sciocchezza. Il linguaggio mitico è una necessità”.
Tragedia – È sempre stata lieve, siamo noi che la vogliamo lugubre e sulfurea. Oggi si ambienta in periferia e tra i vapori ossidati del sottosuolo, per i greci viene con la bellezza: in luoghi scelti per l'incanto, tra cielo e mare, all’ora luminosa e fresca del tramonto. Che è anche la fine del giorno, d’ogni vicenda.
letterautore@antiit.eu
martedì 22 novembre 2011
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