Due storie di morte, l’amore di Thomàs-Thereza e il comunismo, un rapporto che si sfilaccia e uno che imbarbarisce, uno naturalmente entropico, l’altro incalzato polemicamente. Entrambi sotto l’occhio distaccato del’artista Sabina e dello svizzero Frans. Che di leggero hanno soltanto il titolo: le due storie si nutrono vicendevolmente, producendo più tristezza, più vuoto.
La terza traccia, quella delle argomentazioni (la positiva leggerezza di Parmenide, Dio cacca, don Giovanni, il kitsch della sinistra – il Grande Balzo -, il paradiso dei cani, etc.), si svolge brillante con la tecnica dei petardi scoppiettanti. In modo da sembrare Voltaire. Mentre sotto sotto emerge manifestazione del comunismo, cioè della logica Diamat, il materialismo dialettico dell’Est europeo – non sovietico, piuttosto tedesco orientale. Kundera finisce “comunista” dal lato peggiore, la semplificazione. Lontano dai fatti, la piattezza polemica interagisce sul bellissimo racconto di Thereza – la marcia al confine cambogiano, che è un “capitolo” a sé.
Milan Kundera, L’insostenibile leggerezza dell’essere
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