giovedì 10 novembre 2011

Milano cambia cavallo - Berlusconi abbandonato (8)

Ancora una volta si dimostra che Berlusconi è l’opposizione: è – è stato - un gigante in raffronto a un’opposizione incapace e stupida. È stato, è, un avversario facile, per la mancanza di senso dello Stato assoluta in lui e naturale – i suoi avvocati nominati ministri della Giustizia, il patrimonio non parcheggiato, le leggi comandate per sé, senza jattanza (c’è mai stato un illuminismo lombardo, un pensiero anche minimo di diritto pubblico? se ne parla nei libri ma non si vede). Ma anche ora che è alle corde, ascoltare gli avversari di Berlusconi nelle televisioni provoca herpes e rigurgiti. È così che i suoi tanti vizi, privati e pubblici, non riescono ad affondarlo. E farà un terzo decreto stringi debito in pochi mesi, toccando nuovamente gli intoccabili, gli statali, i pensionati d’anzianità, gli inamovibili, e gli scialacquatori degli enti locali. Con un presidente della Repubblica che deve stare al gioco, non può rischiare di passare per l’affossatore dell’euro e dell’Unione europea.
Se Berlusconi è alle corde, lo è per altri motivi. Nemmeno Ruby gli ha fatto perdere consensi, come si sbraccia a spiegare Renato Mannheimer con i suoi sondaggi. Il Btp evidentemente sì. Cioè i suoi compari democristiani, nel governo e in Germania, che vogliono tagli radicali alla spesa e li impediscono. E Milano, che lo ha dichiarato un impiccio. “FATE PRESTO” intima oggi a Napolitano e alle Camere “Il Sole 24 Ore” a tutta pagina, in bastoni cubitali da dichiarazione di guerra, a costo di violentare i ragionieri suoi pacati lettori: qui non c’è remissione. Per non dire del “Corriere della sera”, a proposito del quale, la “coscienza della nazione”, una parentesi va aperta.
Berlusconi e i suoi cari
Più che dai suoi nemici naturali, bisogna dire, Berlusconi è esecrato dai suoi cari: familiari e beneficati. Montanelli per primo, che Berlusconi aveva salvato dalla cayenna al “Corriere della sera”. Travaglio, che esordì sui suoi giornali, tardi-laureato ai trent'anni, passando per fascista. O Mentana, che alla Rai non avrebbe mai potuto fare un grande telegiornale per dieci anni. O anche, per dirne uno fra i tanti, Camilleri, che gli augura la morte e a cui invece lui ha dedicato i Meridiani e importanti promozioni – con vantaggio reciproco, certo, Berlusconi ha questa debolezza.
Non è un’anomalia giornalistica, di professionisti della turpitudine, o di vecchi autori in mal d’opportunismo. È una sua debolezza, aizzare i propri cari. Sfidato dalla moglie Veronica Lario, la seconda, la prescelta. E dalla figlia Barbara, figlia della madre. Che voleva la Mondadori. Poi il Milan. E si accontenta, sembra, di Pato, che comunque è un fustacchione. Senz’altro diritto che la vicinanza. Veronica Lario si è scoperta ultimamente scrittrice - se le lettere non gliele ha scritte, come dicono, Cresto-Dina, il vice-direttore di “Repubblica”. Ma è la moglie milanese incapace di stare a Roma, di stare fuori casa. Meno ancora di tenersi informata, e avere qualcosa da dire, una minima curiosità. E in arte, che era la sua ambizione, non brillava, un pezzo di carne molto lombardo.
La discesa in campo di questa donna, che dice di amare molto la riservatezza, ne ha fatto per i tanti gossip  che fremono di impiccare suo marito una figura da Basso Impero. Per altri, impietositi, una sorta di Medea, la serial killer e quasi una cannibale, che si divora il marito insieme con i figli. Veronica non è né l’una né l’altra, Milano non è posto da tragedie. È la “donna lombarda” – Veronica è emiliana, ma solo amministrativamente: vuole la grana, e ha scelto il momento giusto  La donna lombarda si segnala per la cattiveria, nelle tante ballate a lei intitolate, non per altri splendori. Una Carfagna, per esempio, napoletana o giù di lì, che anche lei non arricchì le arti, tuttavia è curiosa, capisce e parla.
Il problema dei familiari si presenta con gli amici e alleati politici, anche loro in qualche modo famigli, se non figli. Con Fini e Casini, che Berlusconi ha fatto grandi, ma sono grandi incapaci, nullità del tre e qualcosa per cento. Fini in particolare, del cui sdoganamento è vivissima la memoria, giacché Berlusconi incorse per esso rischi all’incolumità. Vivissimo è il ricordo dell’assalto di una turba sudamericana alla stampa Estera a Roma, che Fini appaiava, forse non del tutto per parole d’ordine di partito, a Pinochet e ai generali argentini. Facendo colpa a Berlusconi di averlo sdoganato alla politica nazionale. Era la fine del 1993, Berlusconi aveva sdoganato Fini all’inaugurazione di un ipermercato – subito dopo venduto, dopo l’inaugurazione con fuochi d’artificio politici, al doppio dell’investimento: Berlusconi, come i Medici, prestatori di denaro e mercanti di lana, è uno statista che resta commerciante. Lo sdoganamento avvenne a Casalecchio sul Reno, il 24 novembre 1993, all’appuntamento già in calendario alla Stampa Estera Berlusconi fu salvato in extremis dall’energico Eric Kusch corrispondente del tedesco Handelsblatt che lo presiedeva – alle ultime Europee Kusch si è candidato per il partito Democratico nella circoscrizione Centro, quindici milioni di elettori, raccogliendo 199 voti.
C’è anche molta invidia contro Berlusconi: Milano è fatta così, o sarà normale tra concorrenti. Ma la guerra più costante, insidiosa, cattiva, con almeno due avvisi di reato fasulli recapitati con clamore, gliela fa la Rcs-Corriere della sera, l’azienda milanese leader dell’editoria, concorrente dunque di Berlusconi. Che da trent’anni è sull’orlo del fallimento, tra ruberie colossali, accertate anche se non sanzionate dalla Procura cittadina. E negli ultimi quindici ani ha dichiarato due stati di crisi (un terzo sta per dichiararlo), licenziando oltre duemila persone. Mentre Berlusconi non ha mai licenziato nessuno. In particolare, la Rcs-Corriere della sera ha fallito nella tv, tre volte, con Angelo Rizzoli jr., Romiti sr. e Romiti jr., e nel digitale, con Dada.
Ma non sul quotidiano milanese, universale e costante, e sempre virulenta, è la detestazione di Berlusconi nei media, anche di destra. Per una evidente sua attrazione sull’immaginario - che egli stesso periodicamente sembra impegnato a rinfocolare. Perfino Fo, sorpreso dal Nobel nel 1997, lo attribuì a Berlusconi: la militanza antiberlusconiana avrebbe fatto presa a Stoccolma, tra i vegliardi dell’Accademia Svedese. Ma non c’è solo questo: Berlusconi è l’uomo più detestato anche dall’Italia che legge. Forse più della mafia, i libri contro di lui in vent’anni sono più numerosi – benché necessariamente ripetitivi. Sono diecine ogni anno, centinaia, i libri che lo accusano di ogni infamia. Diciamo mille in vent’anni, che per diecimila copie medie di venduto ognuna fanno dieci milioni di libri. E i libri lasciano una traccia, a differenza delle battute dei comici, anch’esse costanti, soprattutto alla Rai, o degli articoli di giornale, o dei processi gridati delle Procuratrici della Repubblica, Principato, Boccassini.
L’uomo non ha colpe particolari, e anzi, diversamente dagli altri leader repubblicani, non ha ucciso nessuno e non ha nemmeno rubato. Né colpe del genere gli si attribuiscono. Cosa lo condanna dunque all’esecrazione, a parte la concorrenza (il suo successo in affari, dove gli altri annaspano) per quanto riguarda gli stessi media e l’editoria in quanto industrie? Una ragione, se non quella principale, è il senso di crisi che attanaglia l’Italia negli stessi vent’anni del berlusconismo. Da questo punto di vista Berlusconi è una sorta di capro espiatorio.
La crisi degli umori ha due cause: una economica, successiva allo scoppio della bolla del debito pubblico nel 1992, e una politica. Quella politica è l’implosione della sinistra, a seguito dell’implosione dell’Urss e del sovietismo. Cha da venticinque anni ormai si nutre di scarti, se non di spazzatura. Attardandosi in un “era meglio quand’era peggio” che trasforma il progressismo di facciata in reazione dichiarata. E si è risolta in una lotta feroce (giudiziaria, poliziesca) contro il Psi e ogni altro partito riformatore. E in favore dell’assurdo compromesso tra ex Pci e ex Dc, dapprima come compromesso storico nell’Ulivo, poi come partito Democratico, seppure sostenuto dalla quasi universalità dei media. Un sostegno che di per sé proietta un’ombra sinistra su questo asse. Che però è falso soprattutto perché è concepito non come simbiosi ma come una lotta all’ultimo sangue fra le sue due componenti - chiunque ha esperienza anche minima della politica pratica, locale, burocratica (autorizzazioni, appalti) e dei pettegolezzi giornalistici lo sa - con coltelli acuminati. Fra partner cioè impossibili, che però si tengono insieme per non mollare il potere: nei media, la Rai per prima, e quindi nell’opinione che si vuole pubblica benché falsa, nei tribunali, all’università, negli enti economici pubblici, nei grandi settori economici – è bianca per esempio, della minoranza all’interno del Pd, tutta la banca e l’enorme business dell’energia.
Il birillo
Ma, se non era la panacea, Berlusconi non è un alibi: è un birillo. È per questo che finisce non da Cesare ma da vero democristiano e vero milanese. pugnalato dagli amici. Tra i penultimatum del marchio: elezioni immediate, anzi no, anzi sì, ma però, con un’eccezione per Monti, che se non è democristiano di certo è milanese. Con il quale condurre il gioco, dipendente come è dai suoi voti, fino alle elezioni, nella speranza che il tempo e qualche giudice lo traggano fuori dal ridicolo. Il solo effetto tangibile della sua caduta sarà, è sperabile, di liberare i comici democratici, Benigni e Moretti compresi, dall’obbligo di berlusconizzare – se non si sono funzionarizzati nel frattempo, in attesa anche loro della candidatura.
Finisce un’epoca, si dice, e uno lo spera. Ma poi, alla fine, agli sgoccioli, alla frutta, decide Berlusconi anche per le opposizioni, ancora una volta. Anche se, come sempre, per il peggio. Opposizioni che si chiamano Casini, Fini Vendola, Di Pietro, Bersani, senza arte e senza orgoglio – qualcuno è erede di un patrimonio ragguardevole di conoscenze, ma sterile, e non da ora. Mentre lui, va ribadito, è “deciso” da Milano. Si può sottovalutare Berlusconi – il suo quasi ventennato è davvero una vacanza della storia – ma è Milano, che ne è il cuore. Una delle due Milano - l’altra è Bossi. Quella che si fa gli affari propri, che è poi la filosofia della mafia, in tutto e per tutto, con avvertimenti, soprusi, raggiri, soffiate, e anche assassini, seppure via palazzo di Giustizia. Allo stesso modo si può deprecare Milano, ma sapendo che è il cuore dell’Italia. Che sempre ne trae profitto, dal leghismo e dall’antileghismo, dal berlusconismo e dall’antiberlusconismo, dal fascismo e dall’antifascismo, e oggi s’arricchisce mandando a rotoli il debito pubblico.
La mano passa ora a Bazoli, il banchiere della curia - e forse alla curia stessa, il Vaticano. Il 26 ottobre Milano, cioè il “Corriere della sera”, invitava Berlusconi a farsi da parte “per il bene della nazione”, cioè per il Grande Centro che altrimenti non si sa come fare. Detto e fatto: nemmeno due settimane e il professor Monti, l’uomo del monte, il banchiere buono, degli affari più grandi di Berlusconi, va al comando. Berlusconi avrà in cambio salva la Fininvest, e questo è già Milano. Ma non è la parte principale. Consigliandogli di farsi da parte Ferruccio de Bortoli prometteva: “La storia sarà meno ingenerosa della cronaca”. E questo è Milano: far fuori Berlusconi per farne fruttare meglio le quote azionarie. La realtà sarebbe diversa: la cronaca di oggi è la storia di oggi, che lo stesso de Bortoli e il “Corriere della sera” fanno. Di un’opposizione cioè inesistente, senza una sola idea. A meno che non si voglia ritenere tale la persecuzione giudiziaria di Berlusconi, le carte che al “Corriere della sera” arrivano “per vie traverse”, il diktat della Banca centrale europea a fine settembre, l’avviso di reato fabbricato lì per lì nel 1994. Quando occorre cioè per abbattere il governo.
Perché questo è il problema centrale che i tanti anni di berlusconismo pongono: che i suoi nemici sono, al meglio, antipolitici. Da Di Pietro in là. L’ex Pci è, quello democratico, tutto scandalismo (media e intercettazioni), quello di sinistra fuori del mondo. E da Di Pietro in qua: Casini? Fini? Rutelli? Montezemolo? Marcegaglia? Tabacci? Pisanu? Scajola? O il professor Monti, uno a cui solo Berlusconi ha avuto e ha l’ardire di affidare alcunché, il Grande Candidato della Milano Buona, la curia e le banche. Uno vede Daria Colombo, leader degli arancioni, e “cambia canale”, se non ha avuto le revulsioni – o suo marito Vecchioni, il milanese che ogni tanto si fa napoletano.
I dipietristi, Casini e il Grande Centro, Bersani-Bindi, tutti hanno il “dono” di far apparire Berlusconi vittima. Di una gigantesca rete che vede i giudici di Milano impegnati in 27 procedimenti penali contro Berlusconi, e in 470 perquizioni nelle sue aziende e nei suoi uffici. Processi che hanno impegnato per anni un migliaio di giudici. Di cui 24 chiusi con l’assoluzione o la prescrizione – che non è mai imputabile all’imputato.
Il tutto dopo il 1993, dopo la decisione di Berlusconi di entrare in politica. Prima le sue aziende, i suoi collaboratori e lo stesso Berlusconi erano puliti. Mentre carabinieri e finanzieri sono dalla stessa epoca in armi con intercettazioni ventiquattro ore su ventiquattro, telefoniche e ambientali, negli ambienti anche più intimi - la registrazione dell’amplesso sul “lettone di Putin” fornita gentilmente alla signora, poi colmata con i lauti passaggi in Rai, Sky, “El Paìs”, “Times”, il meglio dell’informazione europea. È così che dei capi di governo dell’Ue in questa crisi Berlusconi è l’unico che ha, malgrado se stesso, qualche possibilità di sopravvivere. Merkel ha perduto tutte le elezioni di questi tre anni, Gordon Brown è stato sconfitto, Cameron sopravvive con la faccia di bronzo, Zapatero ha gettato la spugna, Sarkozy vola ridicolmente basso.
Il resto è tutto com’era, l’Italia è immarcescibile. Berlusconi fascista? Berlusconi puttaniere? Berlusconi era fascista nelle copertine di “Panorama”, quindi una trentina d’anni fa, di Claudio Rinaldi. E poi nell’“Espresso” dello stesso Rinaldi da una ventina d’anni abbondanti – era fascista per Rinaldi, giornalista demitiano, anche Craxi. In alternativa al lato b delle modelle, allora le escort si chiamavano così, altra specialità dello stesso Rinaldi, a “Panorama” e all’“Espresso”. Quanto alle ville, Cicerone ne aveva diciannove.
Cosa cambia ora? Prendiamo per buona l’ipotesi che il ciclo berlusconiano sia al capolinea, se non già finito, e facciamone l’obituary, come l’impavido Montanelli lo minacciava al suo benefattore e salvatore – ecco: questa sinistra si fa forte di un Montanelli, il discorso si potrebbe fermare qui. Ma ragioniamone, in chiave del tempo che fu, da contemporaneisti che cercano di addentrare la verità delle cose.
Berlusconi è stato populista, ma non per colpa sua e anzi con merito. Addomesticare la Lega non è facile, che si tratti di smaltire la spazzatura di Napoli fuori Regione, o delle insegnanti meridionali, anche se di sostegno. Berlusconi l’ha disinnescata in forme accettabili – la Lega è perfino diventata un partito politico realista, delle cose da fare, pragmatico. Un successo la cui portata si valuta al confronto con la Francia, dove invece il populismo, escluso per principio dal “campo repubblicano”, è cresciuto nel tempo e a lungo, per un trentennio ormai, a livelli minacciosi per la democrazia, condizionando e falsando tutte le elezioni presidenziali dopo Mitterrand, rigettando l’Unione europea.
Altre cose sono inoppugnabili. Il berlusconismo riempie un vuoto che il Pci ha creato, con una parte della Dc. L’uomo non è imbattibile, è un uomo praticamente solo, e un altro uomo solo, Prodi, l’ha battuto due volte. Ma ogni volta Prodi s’è trovato nelle sabbie mobili, perché a sinistra c’è solo una palude insidiosa. Di finte dialettiche politiche, in realtà di menzogna e ipocrisia, per di più violenta sotto il cappello della faziosità: la mobilitazione vi è costante ma senza nulla di politico, neppure di militante, è solo opportunista, virulenta, volgare, aggressiva - diciamola oscura per non dirla asservita, nel 2011 obbedisce ancora come un sol uomo. Non sa e non parla di lavoro. Né di produzione. Non parla di strategie politiche. Né dell’antipolitica dominante. Né dei suoi soggetti interessati. Non parla di Milano che ci governa, male, malissimo, da vent’anni senza correttivi. Non considera che l’Italia, il paese di un forte, fortissimo, Pci, egemonico tuttora in molte aree, sia l’unico paese in Europa a non avere un partito socialista. A non avere avuto mai un governo socialista.
Se Berlusconi finisce, non è per merito dell’opposizione. Che si conferma invece, è bene ribadirlo, anche in questa crisi, uno dei suoi fondamenti – al punto da non escluderne l’ennesimo misirizzi. Si dice che Berlusconi è, e governa, la melassa italiana. No, Berlusconi “governa” la melassa sinistra. È un fatto che il paese in massa lo abbia votato – anche quando ha perso le elezioni, nel 1996 e nel 2006. Ed è un landmark della storia, per quanto affrettato, che sia stato lui a impedire nel 1994 lo scivolamento dell’Italia in una deriva post-sovietica, o neo-comunista. Perché c’è un’Italia che da vent’anni tenta di sfuggire a questa sinistra, alla stupidità compromissoria – e non ci riesce “grazie” a Berlusconi, gli opposti si tengono.
Quanto forte sia questa esigenza lo prova lo stesso fenomeno Berlusconi: il fatto che l’Italia lo abbia costantemente votato malgrado le tare evidenti dell’uomo. Il riccastro, la tara peggiore per il paese profondo. E il profittatore, l’uomo che usa la politica per i suoi propri affari, che in altra situazione avrebbe portato Berlusconi al pubblico immediato linciaggio invece che a palazzo Chigi per tanti anni. La natura era quella, e il voto a Berlusconi potrà essere pure vissuto come un autogoal, ma l’uomo aveva catturato un’esigenza ineliminabile - che resta in piedi, la tragicommedia potrenne non essersi esaurita: la persecuzione c’è stata, Berlusconi potrebbe nuovamente presentarsi martire.
Un altro fatto è che la stupidità esiste, anche in politica. Berlinguer, per dire, è riuscito a dilapidare quindici o sedici milioni di voti: nel sindacato anzitutto, che l’Italia sta portando a tanti mali passi, e poi nella scuola, che il suo partito ha semplicemente distrutto, e nella giustizia, dove si è fatto ostaggio di squadristi e mafiosi. Con Berlusconi non si saprebbe da che parte cominciare. Con la legge sulle intercettazioni stava per dare le manette facili ai giudici, anche contro i giornalisti. Ai giudici. Tutti i governi ci pensano due volte prima d’inventarsi reati, manette e carceri: il potere delle polizie (si chiamano giudici ma sono sbirri) è sempre tenuto limitato. Lui no, benché ne sia stato e sia vittima costante: è tutto qui il suo liberalismo. A conferma che ha occupato, si dirà nelle storie, una forte domanda di liberalizzazione, per disinnescarla. S’è appropriato dell’enorme domanda di cambiamento e l’ha ridotta a niente: nuovo mercato del lavoro? innovazione? giustizia? crescita?
Un terzo fatto, che ora è il primo e decisivo, è che Berlusconi era Milano, e non lo è più: la sua fine è cominciata a maggio nella sua città. Era l’avidità di Milano, ma non paga più abbastanza e Milano l’ha abbandonato. Uno che per ingordigia non ha capito, in venti anni, quello che ognuno vede: che essere a capo del primo gruppo dei media privati in Italia gli montava contro una distesa di campane a morto, ogni anno per vent’anni, ogni mese, ogni giorno dell’anno: il “Corriere della sera” e i suoi mensili, settimanali, maschili e femminili, o speciali appositi, “la Stampa”, “il Messaggero” e i suoi giornali locali, “la Nazione-Resto del carlino” e la sua miriade di giornali locali, comprese le zone limitrofe in Sicilia e in Sardegna, “la Repubblica” e i suoi blasonati giornali locali, dal “Tirreno” al “Quotidiano di Calabria”. E Sky, col suo telegiornale ventiquattro ore su ventiquattro. E la Rai, coi suoi innumerevoli notiziari, i talk show aggressivi, i comici specializzati come Litizzetto e Crozza, le redazioni politiche a metà di Casini e a metà di Veltroni.
Milano l’ha abbandonato e quindi è finito. La vera Milano, non le giudici col frustino. Più che nella virilità, impossibilitato ora a intrattenere le escort di mezza Italia, Milano lo ha colpito nel portafoglio. Gli ingiunge di pagare mezzo miliardo a De Benedetti. A uno con un pelo sullo stomaco ben più alto del suo. E lo condannerà a oblazioni superiori per Mediaset-Mediatrade – se non lui la sua azienda. Un messaggio che lui ha capito subito, e questo ne dice la natura politica. Facendo finta di no ma si vede che recita, mezzo Arlecchino e mezzo Pulcinella. Come sempre, poiché il suo ruolo in politica ha sempre vissuto come un ruolo a teatro.
In una sola cosa l’opposizione ha di sicuro ragione su Berlusconi: è melenso. Benché imprenditore e manager, uno dunque dal forte stomaco, e re dei media. Sempre “tradito” dai suoi beneficati, la melensaggine avendolo portato a privilegiare anche nel partito i rapporti personali invece che la capacità politica. Mentre dei suoi peggiori nemici, che sono concorrenti in affari falliti in tv o sovrastati nell’editoria – è il caso di De Benedetti e della Rcs-“Corriere della sera” - la sua Mondadori o i suoi giornali non hanno pubblicato un rigo, figurarsi un libro, contro. Nemmeno contro le malefatte evidenti della Rizzoli-Corriere della sera, le ruberie, l’ipocrisia, l’opportunismo, i continui maneggi. O contro la finta compravendita di Repubblica-L’Espresso da parte di De Benedetti, o le pratiche truffaldine della sua Sorgenia.
Questo è molto interessante, anche se marginale al momento: si conferma che i media, se sono influenti per gli insuccessi, non lo sono per i successi. Berlusconi ha vinto, quando ha vinto, contro i media. L’opposizione è incapace perché si è fatta forte di questa opinione pubblica. Che prospera e lavora per l’antipolitica. Mentre l’ambivalenza del giudizio su Berlusconi è anche questa, che era chiamato a dare verità all’opinione pubblica, e non ci ha nemmeno provato.
Si può pure dire che Berlusconi ha fatto la sua stagione, non da ora. In una vecchia intervista a Nanni Filippini su “Repubblica”, Alain Touraine spiegava già nel 1987, prima della caduta del Muro, la crisi della rappresentanza politica: “La vecchia politica è legata all’idea della rappresentanza. La destra e la sinistra quali le conosciamo si sono formate durante lo sviluppo del sistema industriale. Oggi non ha più senso: non ci sono più borghesi e operai; c’è una crisi della rappresentatività politica: che apre delle possibilità e tuttavia nasconde dei rischi”. Obama ne è la sintesi, non c’è “prodotto” della modernità migliore, perfino simpatico a tutti. O Sarkozy, dopo Zapatero, dopo Blair: tutti come Obama persuasivi, a prescindere dagli atti concreti, non eccelsi e anche fallimentari, perché più belli, più giovanili, meno radicati (classificati) politicamente-ideologicamente - la battuta di Nanni Moretti solo, al bar, con D’Alema nel televisore: “Di’ qualcosa di sinistra” fa ridere ancora i sessantenni ma non dice nulla ai trentenni. Ma questi fantocci senza consistenza politica sono buoni per una stagione, il teatrino vuole novità.

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