Si ristampa in anastatica la prima opera pubblicata dal poeta di Melicuccà, “Poco suono”, profetica, mentre Mario Sechi cura per Donzelli, con introduzione di Vito Teti, l’antropologo che dirige il dipartimento di Filologia all’Università di Calabria, la ristampa della raccolta che lo stesso poeta aveva pubblicato a Siena nel 1955. Per l’ennesimo tentativo di recupero di Calogero nel “suo” anno, 2010-211, il centenario della nascita e il cinquantenario della morte. “Scoperto” da Lerici, con due volumi di “Opere” nella prestigiosa collana Poeti Europei, e dalla critica, quando già aveva ceduto alla morte, e subito ricoperto. “Poco suono” Raffaele Leuzzi, il titolare delle Nove Edizioni Barbaro, si è procurato per caso, curiosando nel mercatino dei libri di piazza Cordusio a Milano.
Il forte impegno, anche finanziario, del suo paese di origine alle falde dell’Aspromonte, nel quadro di un “Progetto Calogero”, a iniziativa del sindaco Emanuele Oliveri, che ha organizzato un convegno di Studi un anno fa a Reggio Calabria, una tavola rotonda di studiosi e testimoni il 4 novembre al Campidoglio a Roma, e l’opera video-teatrale “Città fantastica” di Nino Cannatà e Girolamo Deraco al teatro Belli a Roma tutta la settimana scorsa, con Roberto Hertlitzka e la partecipazione di Lydia Mancinelli, dovrebbe contribuire alla riscoperta definitiva. Oliveri ha anche allo studio una Fondazione. Mentre gli eredi hanno donato tutte le carte del poeta, dove gli inediti inevitabilmente prevalgono, e quindi una curatela è necessaria, all’università di Calabria a Cosenza. Un ricco sito e molti aficionados online lasciano presumere che l’oblio è terminato ma l’editoria e la critica latitano.
Il “Progetto” è un incrocio insieme di passione generosa e di inerzia che curiosamente fa da specchio all’impegno disilluso di una vita dello stesso poeta. Tra echi incoraggianti e disperanti insondabili rifiuti o silenzi. Su un fondo, certo, esistenzialmente depresso dello stesso poeta: “So che sono e sono stato da sempre uno schizofobico, un psicastenico, ed un pauroso per eccellenza”, ansioso cioè, scriverà alla fine a Giuseppe Tedeschi – “Sono vano per troppo aspettare” è uno dei suoi primi versi nella prima raccolta.
“Poco suono” è una plaquette rifiutata da molti, tra l’altro dal pur cristianissimo Betocchi, che potrebbe da sola valere un posto a Lorenzo nel Parnaso del Novecento – anche se più che una plaquette è un’antologia, affastellata come il suo corrispondente fiorentino gli faceva notare: un centinaio di componimenti in poche pagine. Ma è questo un segno dell’isolamento, in ragione della tabe geografica, che sempre lo ha perseguitato. L’isolamento etnico è il più devastante. Di una persona che per tutto, mentalità, istruzione, proprietà, è altrimenti simile e vicina, non fosse per l’accento o il timbro postale. Di raccolte “voluminose” e di “prolissità” si accuserà egli stesso in una delle sue ultime lettere, quella lunga venti pagine a mo’ di autobiografia a Vittorio Sereni del 1960 (che chiude con: “Se può, La prego di aiutarmi”). Dove però si vede che non è la prolissità il problema. Un isolamento tanto più ostile considerando l’insistenza con cui Calogero cerca tutta la vita senza scoraggiarsi editori e critici, pur senza essere invadente. Tanto più al confronto con le collezioni di poesia contemporanea degli stessi, Einaudi, Vallecchi, Mondadori tra gli altri. Le sue prose, essenzialmente le lettere e le note introduttive alle sue stesse raccolte, che Montale troverà “per lo più sgrammaticate e deliranti” (mentre commuoveranno Amalia Rosselli), sono soliloqui stremanti, per il diniego di dialogo.
Sotterrato vivo, potrebbe essere alla fine il motto di Calogero – “vi prego di non essere sotterrato vivo”, sono le ultime parole vergate prima del probabile suicidio, all’ennesimo tentativo riuscito. Come del suo paese (“Questa grigia scarpata del mondo”, lo “spazio ove intombo me”), il poeta può dire di sé: “Sono morto duemila anni fa”. La sua colpa è la lontananza, la distanza. Che comporta l’inaccessibilità, e quindi l’inesistenza. La letteratura ha le sue regole – oggi si chiamano mercato – e anche la poesia: non si è poeti per caso, per vocazione, per illuminazione. Calogero ne ha il dono: ha la parola “alata”, tanto è sempre giusta. E quel suono “verticale” che mandò in estasi Ungaretti quando infine poté leggerlo (“con la sua poesia ci ha diminuiti tutti”), facendogli supporre nel poeta morto una sua reincarnazione. Ma è condannato al silenzio, in vita più che in morte, ed è tutto dire.
“In questa bella fiaba della vita\ marcita dagli eventi” è il leitmotiv: Calogero “canta” l’assenza. Lucia Calogero, nipote del poeta, editrice di uno degli inediti, “Dai quaderni del ‘57”, sua studiosa, propone la figura del viaggio: “Un interminabile viaggio nelle non delimitabili plaghe dell’essere”. Che Mario Sechi qui chiama “erranza”, facendone “un motivo cruciale della poesia moderna”. Un viaggio nell’assenza.
L’assenza è anche il suo destino: “Morte mi chiama\ col suo peso leggero\ come in sogno”. Un refuso nel programma di lavoro di Cannatà e Deraco, “Quell’oltrein cui la parola prende dimora”, è l’impossibile “città fantastica” di Calogero, l’oltrein. Prezioso a tratti: “Riviere di anni mi hanno bagnato,\ con la loro arsura”, “quando scolora\ l’infinito seno della luna\ nell’aria bianca”. Lo stesso curatore Sechi trova che non c’è logica: “V’è qualcosa di inconcludente, di involuto, di irresolubile nella matassa dei passaggi concettuali cui egli provò ad agganciare la sua quotidiana fatica di scrittore. La luce di un pensiero teoreticamente risolto non chiarisce né chiarirà mai il caso di questa poesia”. E che, insomma, non c’è poesia: Sechi ci trova via via Leopardi, Saba, D’Annunzio, Ungaretti, l’ermetismo, come in una poesia di scuola, à la manière de, dice. Anche se con stilemi propri, seppure non graditi all’esegeta: il mito vissuto, la natura naturante (Teti ci vede una suggestiva “poesia quasi geologica”, fino a “una geofilosofia delle nuvole”, immagine ricorrente), e “una figura di doppio, l’autoritratto ab externo di Lorenzo”. Ermetico lo aveva detto negli anni 1960 anche la traduttrice inglese, e come post-ermetico è stato letto nella breve stagione dopo la morte, ma non è quella la sua cifra.
Tracce distinte sono invece percorribili, in attesa di un assetto critico. Calogero vive l’isolamento con asprezza, anche con dolcezza, ma in forma metafisica, quale realtà dell’essere. Tra empiti, palpiti, speranze, miraggi, sempre riprecipitandovi. Con un’elevata capacità creativa, grazie alla quale, avrebbe detto Celan, la poesia “non s’impone ma si espone”, non si elabora ma si evidenzia. Con una panoplia che avrebbe potuto essere strabiliante di invenzioni, lessicali, sintattiche, semiche, questo è quello che ha inteso Ungaretti. “Sideralmente inavvicinabili”, avrebbe detto Zanzotto. Se avessero avuto un’eco, fossero state produttive invece che fuochi fatui. Così non essendo avvenuto, Calogero matura presto anche la coscienza, mai recriminosa e tuttavia avvolgente, che quanto più la sua lingua poetica s’inoltrava nell’inesplorato, tanto più sarebbe rimasta isolata, infruttifera.
Subentra così il disfacimento – poi si sarebbe detto destrutturazione - dei significanti, dei significati: la “follia” ne è un derivato e non la causa. E la scomparsa dell’elemento oggettivo, l’invadenza di quello soggettivo – che la tarda “scoperta” ridurrà a ometto di provincia senza storia (e quindi senza poesia). Oggi si sarebbe detto, in altro contesto, della deistorizzazione: la perdita di senso per effetto di una “colpa”, anche se non soggettiva, non propria, una tara. La deistorizzazione può essere peggiore della non storia, si può dirlo per diretta, lunga, approfondita esperienza terzomondista, del mondo arabo e dell’Africa: il colonialismo, cancellando radicalmente con la forza, “crea” un’alterità nuova, la promuove, la sostanzia anche, il neo colonialismo subdolo cancella blandendo, gesto per gesto, momento per momento, parola per parola.
È un fenomeno non inavvertito, Calogero ne ha distinto il presagio. Fin da questo “Poco suono” terremota il linguaggio con un presentimento di infertilità. Articola i suoni come il muto inarticola i suoi, preciso e insieme già disperante - la sua parola riesce, così come appare senza riesame critico, preziosa, e occasionale, fortuita. Con la coscienza di essere una particolarità, una diversità nell’universo in cui pure anela d’includersi. Sia il lessico che la grammatica e la sintassi è come se gli sfuggissero, verso territori inesplorati a lui stesso. Che lui tenta di ancorare, ora ai luoghi e al paesaggio, ora alla natura e ai fenomeni, ma senza fermare la nave, che va a volte arrembante, quasi che il poeta non ne fosse il timoniere. Un moto che in altra epoca si sarebbe detto mistico, o sacro, e in epoca di disincanto è invece, è recepito, come una (vaga) metafisica – la metafisica è vaga. Da qui l’esigenza di esordire con un programma, che è in realtà una scusante, una captatio benevolentiae.
Il suo programma è nel 1936 (im)modesto: “L’arte ha il compito di svelare il destino della natura e il significato recondito delle cose”. E lo stesso vent’anni dopo , scrivendo a Sinisgalli: “Viene spontaneo pensare che la poesia tende ad essere sempre più pensiero puro”. O alla fine, nella lettera-saggio a Sereni: “”Sono proclive a far coincidere poesia o filosofia con la storia, e questo ritengo perenne e permanente, sì che ogni attimo di vita abbia almeno il suo granellino di verità” (non a sproposito, spiega più in là: “Di ciò farebbe fede la maggiore specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia”).
A volte narrativo, nei testi finali della raccolta che dà il titolo al volumetto: “Domani”, “Lettere d’amore”, “Alta cinta”, e alcuni dei testi sparsi che completano il volume. Di scrittura non descrittiva o storica, però, né poetica o programmatica, come scrisse a Sereni, convinto “che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato, sia pure i margini di certi pensieri, o semplicemente di certe intenzioni poetiche, ma che si definiscono di volta in volta durante il lavoro rivolto alla pura ricerca espressiva”. O già in partenza, in uno dei manoscritti del 1936, l’anno di “Poco suono” che si possono leggere sul sito: la “poesia pura” è più spesso “inessenziale”. Un lavoro dunque, non un programma, di ricerca aperta, senza frontiere né canoni. Una ricerca forse impossibile, certo incommensurabile, specie per l’editoria di cui ambì per trent’anni invano l’attenzione. Si pubblicano mille poeti l’anno, arguiva Montale a proposito di Calogero, non si può rimproverare all’editoria di saltarne uno. E perché no? In trent’anni.
Montale, recensendo sul “Corriere della sera” a Ferragosto del 1962 il primo volume di Lerici, diceva che bisogna aspettare: “La poesia vera, e più che mai la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento” – lui che fu un classico in gioventù alla prima opera. Poesia difficile, dunque? Che vorrà dire? Montale cita Hölderlin, giustamente, e il tardo Yeats, ma dubita forte che quella di Calogero non sia che “una forma di espressione puramente velleitaria, informe”. Ma, seppure non volendo, per una verità che emerge opposta dopo cinquant’anni alla sua infastidita critica, dà chiaro e forte lo specifico del poeta elusivo: “Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno. Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti”. Le sue due colonne sono in realtà seminate di dubbi sulla salute mentale di Calogero. Che Sechi rispolvera, denunciando “il suo enorme, fragilissimo, ego” – che pure è di tutti i poeti, di tutti gli artisti. Un sospetto che Teti fuga spiegando che, quando gli 804 quaderni che racchiudono tutta l’opera di Lorenzo arrivarono agli archivi della sua università, fu colpito in primo luogo “dell’ordine nel disordine e della precisione quasi maniacale del poeta”. Per una sorta di “quotidiano poetico diario, tenuto per oltre trent’anni”, secondo “un progetto poetico (anche editoriale)”. Si può essere “pazzi” a Milano (Alda Merini) o a Parigi (Celan), a Stoccolma (Nelly Sachs), anche tra la Riviera e il Tirolo (Ezra Pound), e sulla Neckar naturalmente (Hölderlin), ma non a Melicuccà, sotto l’Aspromonte?
Sinisgalli aveva trovato il “punto d’arrivo” di Calogero nell’arabesco. Mentre rileggendolo oggi c’è molto verità – fortemente semantica – nei versi e nelle parole. Ed è quella che lui stesso indicava nelle lettere “deliranti”: c’è una parallela corrispondenza tra le sue liriche e le sue lettere e la filosofia del mainstream europeo quale si veniva svolgendo nei suoi trent’anni di vita culturale, dal 1930 al 1960, tra Heidegger e gli epigoni francesi.
Lorenzo Calogero, Poco suono, Nuove Edizioni Barbaro, pp.61 € 8Il forte impegno, anche finanziario, del suo paese di origine alle falde dell’Aspromonte, nel quadro di un “Progetto Calogero”, a iniziativa del sindaco Emanuele Oliveri, che ha organizzato un convegno di Studi un anno fa a Reggio Calabria, una tavola rotonda di studiosi e testimoni il 4 novembre al Campidoglio a Roma, e l’opera video-teatrale “Città fantastica” di Nino Cannatà e Girolamo Deraco al teatro Belli a Roma tutta la settimana scorsa, con Roberto Hertlitzka e la partecipazione di Lydia Mancinelli, dovrebbe contribuire alla riscoperta definitiva. Oliveri ha anche allo studio una Fondazione. Mentre gli eredi hanno donato tutte le carte del poeta, dove gli inediti inevitabilmente prevalgono, e quindi una curatela è necessaria, all’università di Calabria a Cosenza. Un ricco sito e molti aficionados online lasciano presumere che l’oblio è terminato ma l’editoria e la critica latitano.
Il “Progetto” è un incrocio insieme di passione generosa e di inerzia che curiosamente fa da specchio all’impegno disilluso di una vita dello stesso poeta. Tra echi incoraggianti e disperanti insondabili rifiuti o silenzi. Su un fondo, certo, esistenzialmente depresso dello stesso poeta: “So che sono e sono stato da sempre uno schizofobico, un psicastenico, ed un pauroso per eccellenza”, ansioso cioè, scriverà alla fine a Giuseppe Tedeschi – “Sono vano per troppo aspettare” è uno dei suoi primi versi nella prima raccolta.
“Poco suono” è una plaquette rifiutata da molti, tra l’altro dal pur cristianissimo Betocchi, che potrebbe da sola valere un posto a Lorenzo nel Parnaso del Novecento – anche se più che una plaquette è un’antologia, affastellata come il suo corrispondente fiorentino gli faceva notare: un centinaio di componimenti in poche pagine. Ma è questo un segno dell’isolamento, in ragione della tabe geografica, che sempre lo ha perseguitato. L’isolamento etnico è il più devastante. Di una persona che per tutto, mentalità, istruzione, proprietà, è altrimenti simile e vicina, non fosse per l’accento o il timbro postale. Di raccolte “voluminose” e di “prolissità” si accuserà egli stesso in una delle sue ultime lettere, quella lunga venti pagine a mo’ di autobiografia a Vittorio Sereni del 1960 (che chiude con: “Se può, La prego di aiutarmi”). Dove però si vede che non è la prolissità il problema. Un isolamento tanto più ostile considerando l’insistenza con cui Calogero cerca tutta la vita senza scoraggiarsi editori e critici, pur senza essere invadente. Tanto più al confronto con le collezioni di poesia contemporanea degli stessi, Einaudi, Vallecchi, Mondadori tra gli altri. Le sue prose, essenzialmente le lettere e le note introduttive alle sue stesse raccolte, che Montale troverà “per lo più sgrammaticate e deliranti” (mentre commuoveranno Amalia Rosselli), sono soliloqui stremanti, per il diniego di dialogo.
Sotterrato vivo, potrebbe essere alla fine il motto di Calogero – “vi prego di non essere sotterrato vivo”, sono le ultime parole vergate prima del probabile suicidio, all’ennesimo tentativo riuscito. Come del suo paese (“Questa grigia scarpata del mondo”, lo “spazio ove intombo me”), il poeta può dire di sé: “Sono morto duemila anni fa”. La sua colpa è la lontananza, la distanza. Che comporta l’inaccessibilità, e quindi l’inesistenza. La letteratura ha le sue regole – oggi si chiamano mercato – e anche la poesia: non si è poeti per caso, per vocazione, per illuminazione. Calogero ne ha il dono: ha la parola “alata”, tanto è sempre giusta. E quel suono “verticale” che mandò in estasi Ungaretti quando infine poté leggerlo (“con la sua poesia ci ha diminuiti tutti”), facendogli supporre nel poeta morto una sua reincarnazione. Ma è condannato al silenzio, in vita più che in morte, ed è tutto dire.
“In questa bella fiaba della vita\ marcita dagli eventi” è il leitmotiv: Calogero “canta” l’assenza. Lucia Calogero, nipote del poeta, editrice di uno degli inediti, “Dai quaderni del ‘57”, sua studiosa, propone la figura del viaggio: “Un interminabile viaggio nelle non delimitabili plaghe dell’essere”. Che Mario Sechi qui chiama “erranza”, facendone “un motivo cruciale della poesia moderna”. Un viaggio nell’assenza.
L’assenza è anche il suo destino: “Morte mi chiama\ col suo peso leggero\ come in sogno”. Un refuso nel programma di lavoro di Cannatà e Deraco, “Quell’oltrein cui la parola prende dimora”, è l’impossibile “città fantastica” di Calogero, l’oltrein. Prezioso a tratti: “Riviere di anni mi hanno bagnato,\ con la loro arsura”, “quando scolora\ l’infinito seno della luna\ nell’aria bianca”. Lo stesso curatore Sechi trova che non c’è logica: “V’è qualcosa di inconcludente, di involuto, di irresolubile nella matassa dei passaggi concettuali cui egli provò ad agganciare la sua quotidiana fatica di scrittore. La luce di un pensiero teoreticamente risolto non chiarisce né chiarirà mai il caso di questa poesia”. E che, insomma, non c’è poesia: Sechi ci trova via via Leopardi, Saba, D’Annunzio, Ungaretti, l’ermetismo, come in una poesia di scuola, à la manière de, dice. Anche se con stilemi propri, seppure non graditi all’esegeta: il mito vissuto, la natura naturante (Teti ci vede una suggestiva “poesia quasi geologica”, fino a “una geofilosofia delle nuvole”, immagine ricorrente), e “una figura di doppio, l’autoritratto ab externo di Lorenzo”. Ermetico lo aveva detto negli anni 1960 anche la traduttrice inglese, e come post-ermetico è stato letto nella breve stagione dopo la morte, ma non è quella la sua cifra.
Tracce distinte sono invece percorribili, in attesa di un assetto critico. Calogero vive l’isolamento con asprezza, anche con dolcezza, ma in forma metafisica, quale realtà dell’essere. Tra empiti, palpiti, speranze, miraggi, sempre riprecipitandovi. Con un’elevata capacità creativa, grazie alla quale, avrebbe detto Celan, la poesia “non s’impone ma si espone”, non si elabora ma si evidenzia. Con una panoplia che avrebbe potuto essere strabiliante di invenzioni, lessicali, sintattiche, semiche, questo è quello che ha inteso Ungaretti. “Sideralmente inavvicinabili”, avrebbe detto Zanzotto. Se avessero avuto un’eco, fossero state produttive invece che fuochi fatui. Così non essendo avvenuto, Calogero matura presto anche la coscienza, mai recriminosa e tuttavia avvolgente, che quanto più la sua lingua poetica s’inoltrava nell’inesplorato, tanto più sarebbe rimasta isolata, infruttifera.
Subentra così il disfacimento – poi si sarebbe detto destrutturazione - dei significanti, dei significati: la “follia” ne è un derivato e non la causa. E la scomparsa dell’elemento oggettivo, l’invadenza di quello soggettivo – che la tarda “scoperta” ridurrà a ometto di provincia senza storia (e quindi senza poesia). Oggi si sarebbe detto, in altro contesto, della deistorizzazione: la perdita di senso per effetto di una “colpa”, anche se non soggettiva, non propria, una tara. La deistorizzazione può essere peggiore della non storia, si può dirlo per diretta, lunga, approfondita esperienza terzomondista, del mondo arabo e dell’Africa: il colonialismo, cancellando radicalmente con la forza, “crea” un’alterità nuova, la promuove, la sostanzia anche, il neo colonialismo subdolo cancella blandendo, gesto per gesto, momento per momento, parola per parola.
È un fenomeno non inavvertito, Calogero ne ha distinto il presagio. Fin da questo “Poco suono” terremota il linguaggio con un presentimento di infertilità. Articola i suoni come il muto inarticola i suoi, preciso e insieme già disperante - la sua parola riesce, così come appare senza riesame critico, preziosa, e occasionale, fortuita. Con la coscienza di essere una particolarità, una diversità nell’universo in cui pure anela d’includersi. Sia il lessico che la grammatica e la sintassi è come se gli sfuggissero, verso territori inesplorati a lui stesso. Che lui tenta di ancorare, ora ai luoghi e al paesaggio, ora alla natura e ai fenomeni, ma senza fermare la nave, che va a volte arrembante, quasi che il poeta non ne fosse il timoniere. Un moto che in altra epoca si sarebbe detto mistico, o sacro, e in epoca di disincanto è invece, è recepito, come una (vaga) metafisica – la metafisica è vaga. Da qui l’esigenza di esordire con un programma, che è in realtà una scusante, una captatio benevolentiae.
Il suo programma è nel 1936 (im)modesto: “L’arte ha il compito di svelare il destino della natura e il significato recondito delle cose”. E lo stesso vent’anni dopo , scrivendo a Sinisgalli: “Viene spontaneo pensare che la poesia tende ad essere sempre più pensiero puro”. O alla fine, nella lettera-saggio a Sereni: “”Sono proclive a far coincidere poesia o filosofia con la storia, e questo ritengo perenne e permanente, sì che ogni attimo di vita abbia almeno il suo granellino di verità” (non a sproposito, spiega più in là: “Di ciò farebbe fede la maggiore specializzazione del linguaggio, più forte in poesia che in filosofia”).
A volte narrativo, nei testi finali della raccolta che dà il titolo al volumetto: “Domani”, “Lettere d’amore”, “Alta cinta”, e alcuni dei testi sparsi che completano il volume. Di scrittura non descrittiva o storica, però, né poetica o programmatica, come scrisse a Sereni, convinto “che gli oggetti della poesia non appartengono mai al già pensato, sia pure i margini di certi pensieri, o semplicemente di certe intenzioni poetiche, ma che si definiscono di volta in volta durante il lavoro rivolto alla pura ricerca espressiva”. O già in partenza, in uno dei manoscritti del 1936, l’anno di “Poco suono” che si possono leggere sul sito: la “poesia pura” è più spesso “inessenziale”. Un lavoro dunque, non un programma, di ricerca aperta, senza frontiere né canoni. Una ricerca forse impossibile, certo incommensurabile, specie per l’editoria di cui ambì per trent’anni invano l’attenzione. Si pubblicano mille poeti l’anno, arguiva Montale a proposito di Calogero, non si può rimproverare all’editoria di saltarne uno. E perché no? In trent’anni.
Montale, recensendo sul “Corriere della sera” a Ferragosto del 1962 il primo volume di Lerici, diceva che bisogna aspettare: “La poesia vera, e più che mai la difficile poesia di Calogero, deve attendere la sua verifica dall’invecchiamento” – lui che fu un classico in gioventù alla prima opera. Poesia difficile, dunque? Che vorrà dire? Montale cita Hölderlin, giustamente, e il tardo Yeats, ma dubita forte che quella di Calogero non sia che “una forma di espressione puramente velleitaria, informe”. Ma, seppure non volendo, per una verità che emerge opposta dopo cinquant’anni alla sua infastidita critica, dà chiaro e forte lo specifico del poeta elusivo: “Accostarsi alla sua poesia è un’ardua impresa perché in lui la parola è del tutto spogliata del suo contenuto semantico e ridotta a semplice segno. Questo poeta costituzionalmente incapace di vivere si era creato un habitat di parole poco o nulla significanti”. Le sue due colonne sono in realtà seminate di dubbi sulla salute mentale di Calogero. Che Sechi rispolvera, denunciando “il suo enorme, fragilissimo, ego” – che pure è di tutti i poeti, di tutti gli artisti. Un sospetto che Teti fuga spiegando che, quando gli 804 quaderni che racchiudono tutta l’opera di Lorenzo arrivarono agli archivi della sua università, fu colpito in primo luogo “dell’ordine nel disordine e della precisione quasi maniacale del poeta”. Per una sorta di “quotidiano poetico diario, tenuto per oltre trent’anni”, secondo “un progetto poetico (anche editoriale)”. Si può essere “pazzi” a Milano (Alda Merini) o a Parigi (Celan), a Stoccolma (Nelly Sachs), anche tra la Riviera e il Tirolo (Ezra Pound), e sulla Neckar naturalmente (Hölderlin), ma non a Melicuccà, sotto l’Aspromonte?
Sinisgalli aveva trovato il “punto d’arrivo” di Calogero nell’arabesco. Mentre rileggendolo oggi c’è molto verità – fortemente semantica – nei versi e nelle parole. Ed è quella che lui stesso indicava nelle lettere “deliranti”: c’è una parallela corrispondenza tra le sue liriche e le sue lettere e la filosofia del mainstream europeo quale si veniva svolgendo nei suoi trent’anni di vita culturale, dal 1930 al 1960, tra Heidegger e gli epigoni francesi.
Parole del tempo, Donzelli, pp XXX-220 € 19
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