Clinton è il vino, poco alcolico, denso, della vite americana, “madre di tutti i vitigni europei” dopo la fillossera che li aveva decimati, da cui è inattaccabile. Nel Quarnaro nascono tutti i venti dell’Adriatico, le bore gelide, le levantare di fuoco. La notte cala la smara, “uno dei pochi termini astratti veneti”, il “terrore dell’ignoto”. E ovunque vegeta il salice di fosso, “il salgàro in veneto” – come ovunque altrove in campagna e ora è scomparso. È già scomparso invece lo storione, “e così quello stupendo caviale piccante che usavano gli ebrei di Ferrara”. In un mondo remoto, degli “Etruschi scomparsi da Spina”, forse. In un romanzo anch’esso remoto, del 1974, e tuttavia vivo, nella lingua, nel plot, nel senso.
Il protagonista narratore si chiama Sandro, Italia è la sua donna di gomma, un’epifania e una marionetta, ma la vicenda non è una volgare allegoria. Sì, c’è anche quello, l’esercizio onanistico con la bambola, benché plastica e morbida, “nata a Hong Kong, educata in Olanda”, ma nel senso della solitudine. Il delta in realtà è quello del fiume, il racconto è del Polesine, un microcosmo scandagliato in minuto dettaglio, con linguaggio sontuoso senza essere eccessivo. E appropriato: marittimo, ittico, vegetale, idrico, allora e oggi inconsuetamente naturalistico. André Pieyre de Mandiargues, che lo presenta, lo approssima al nouveau roman allora in voga, e al divagatore Huysmans, non a quello decadente di “A ritroso” ma al naturista di “Alla deriva” e “In rada”. Anche a De Chrico, all’“Ebdomeros”, altro testo dimenticato, per la precisione onirica del dettaglio. È un romanzo dimenticato, uno dei pochi del Novecento che si fa rileggere.
Zanotto, poeta in veneto e in lingua di cui si sono perse le tracce, è uomo d’acqua - anche nel successivo “Adone”, pubblicato senza fortuna da Vallecchi. È una peculiarità, ma non dirimente. Che il vezzo del romanzo erotico rischia di bilanciare negativamente: erano gli anni della sessualità in vista, Moravia, Buzzati, Berto, il veneto di Calabria, Bevilacqua e molti altri vi si esercitavano. Una modesta autarchia che Nanni Moretti stava per stroncare. Qui esteso fino al sacrilegio, caso raro in letteratura, del fantoccio Italia in veste di santa Maria Goretti. Né mancano la droga (l’amanita muscaria) e il blando spiritismo da “Mattino dei maghi” (Sandro menziona il suo autore Sandro Zanotto, nella sua piccola biblioteca, quale collaboratore della rivista “Pianeta”, di Louis Pauwels e Jacques Bergier), a intorbidare il finale. Datati pure, dell’oltranzismo artificioso (manierista) anni Settanta, i fondi musicali di Bach, come nei film violenti di Pasolini. Ma per Zanotto sono un falso scopo. Il suo alter ego vaga per il delta, l’immenso acquitrino del Po alla foce, in una barca di “colore nero e la forma a feretro”, del tetro nome “Galioto”, come un entomologo, facendosi leggere a ogni pagina, a ogni riga, con la matita in mano – cosa che Voltare trovava positiva, per il libro. Evocando alla partenza Antonio Delfini, dettaglista di una sola città, la sua Modena, di una realtà che era la sua, piena di meraviglie benché limitata.
Un viaggio in solitario - quando Sandro incontra qualcuno gli viene da vomitare - essendo arrivato alla conclusione che “il più completo erotismo si realizza nel distacco”. Autarchico soprattutto nel linguaggio, in lingua ma ben “regionale”. (nella seconda menzione del suo autore Zanotto, Sandro lo dice collaboratore di riviste di storia e glottologia locale). Nel Delta come in una tebaide, eremita volontario. Tra acque stagnanti maleodoranti e i rifiuti, delle concerie, delle cave di sabbia, dei turisti, dei poveri, i veleni, le plastiche, le lattine, gli animali morti, i legni marciti, con i chiodi arrugginiti, e il lezzo delle secche, “il caratteristico freschin veneto”.
Sandro Zanotto, Il Delta di Venere
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