È la ripresa, ampliata, della prima edizione quasi privata, nel 1996. È il canzoniere dell’emigrazione “forzata”, e dell’amata Meike (Behrmann, sociologa allieva di Norbert Elias, coautrice nel 1984 con Abate, al suo debutto a trent’anni, in Germania, in tedesco, dell’importante saggio “I Germanesi”). Sono poesie civili, discorsive, come le prose che le intervallano, “proesie” le chiama l’autore.
Abate è egli stesso emigrato, anche se non per bisogno, e a lungo è stato autore tedesco, nel gruppo PoLiKunst, che quarant’anni fa riuniva in Germania artisti e scrittoi di 17 diversi paesi, che usavano il tedesco come lingua franca. Non è la stessa cosa dei tanti autori africani e asiatici che oggi, in Italia, scrivono in italiano, come Abate vorrebbe: l’emigrazione obbligata, per motivi politici o di sussistenza, è altra cosa, venire dall’Europa, sia pure dell’Est, non è come venire dall’Africa, e molti del PoLiKunst, Abate tra essi, si sono tranquillamente ridomiciliati al paese di origine. È qualcosa di simile, all’apparenza: un italiano può essere di casa ovunque in Europa, anche in Africa, mentre un africano deve avere grosse riserve di vitalità per ritrovarsi in Italia – non bisogna rubare la povertà ai poveri, la disgrazia, l’impossibilità di essere.
La raccolta si compone di quattro “Dimore”. Quella degli ultimi anni, 1986-1995, intitolata “Di more”, si compone di cantilene e filastrocche mistilingui. Dagli effetti sorprendenti – Mut, coraggio, è in arbëresh cacca…. Ma tutta la raccolta è, contro le intenzioni dell’autore, il segno più vero dell’emigrazione, che è avventura, dei giovani e forti, contro incomprensioni e solitudini, più che disperazione, e sempre è incontro di culture, di cui si tesse la storia. “Quel paese” che il padre di Carmine mitizza può essere quello d’origine come la Germania.
Carmine Abate, Terre di andata, Il Maestrale, pp. 154 € 14
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