Si conferma, dopo un lustro, di grande capacità fabulistica. Potrebbe essere “Gli Indifferenti” di un secolo (quasi) dopo, se non del millennio: il romanzo di un’altra borghesia, diversamente “vuota”. Se non fosse ancora vittima dell’accoglienza superficialmente entusiasta all’uscita. E se non fosse di suo non piacevolmente snob, alla Philip Roth.
L’esordio è, alla Roth, col sesso sbattuto in faccia. Ma non fa ridere, nemmeno sorridere. Né diverte l’ebraismo non ebraismo. Le mirabolanti aneddotiche rallegrano con l’amaro in fondo a ognuna di esse, da Bepy a Gaia e all’Arabo. Lo sdegno prevale, il fondo risentito: come “Gli indifferenti”, e con una scrittura e un taglio infinitamente più agili, meglio costruiti, fa un quadro che resta di come vivono i ricchi a Roma. È il romanzo dei Parioli, dell’inconsistenza alto borghese.
Il romanzo è “storico” anche per un altro motivo. Partendo dall’avvitamento sul fatto ebraico dell’autore di un “Proust antiebreo” di un lustro anteriore. Compreso l’odio-di-sé (l’ebraismo va di moda, pp. 46-48 di questa edizione economica, l’impossibilità per un ebreo di essere ebreo, 44-48, la serie lunghissima di accuse al “modo d’essere” ebraico, 17), che ha indotto la comunità ebrea di Roma a dirlo antisemita. Questo Piperno, pubblicato nello stesso momento in cui in Francia si ripescava Irène Nèmirovsky, pone un interessante caso di comparativismo culturale: accettato, perfino sopravvalutato, l’ebraismo non ebraismo francese, litigioso quello italiano. Non per colpa dell’autore, ma del mondo che ricrea: è un’altra maniera d’essere del disagio italiano, della società ricca che si nasconde nella cialtroneria.
Alessandro Piperno, Con le peggiori intenzioni
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